Porsi la questione se è possibile studiare l’anarchismo attraverso i suoi legami associativi con l’obbiettivo di coglierlo come movimento nella seconda metà del 900, significa – contestualmente – porsi una serie di problemi che si intrecciano con la grande trasformazione che le relazioni internazionali e il contesto italiano subiscono negli anni dal 1945 in poi.

E’ infatti imprescindibile, per valutare una reale presenza anarchica negli anni repubblicani, prendere in considerazione le enormi differenze che essi si trovano di fronte rispetto agli anni in cui il movimento era all’apice della sua diffusione e del suo radicamento sociale. Ciò significa, per molti aspetti, affrontare il problema di come l’Italia, nazione sconfitta, inizia il suo percorso ricostruttivo in termini istituzionali, materiali, ma anche economici e politici e, quindi, connettere l’anarchismo e le sue diverse fasi postbelliche con la costruzione della democrazia repubblicana e con la sua profonda trasformazione sociale.

Introduzione

Ragionando solo per punti, gli anarchici – sin dagli anni della Resistenza, ancor prima della ricomposizione in termini organizzativi avvenuta nel settembre 1945 a Carrara – si trovano ad affrontare questioni del tutto nuove. Innanzitutto il ruolo assunto dai partiti nella Resistenza, nei CLN e nei governi di Unità Nazionale, come soggetti fondativi delle prime istituzioni democratiche che l’Italia unita si apprestava a conoscere.

In secondo luogo l’egemonia che il PCI esercitava in forma diretta e indiretta sulle masse lavoratrici, anche attraverso la rappresentanza sindacale. Proseguendo negli anni si aggiunge poi la ricostruzione economica disegnata attraverso il Piano Marshall, che induce una serie di fenomeni sociali dirompenti: la fine dell’architrave rappresentato dal settore primario e la ripresa – nella sua declinazione interna – dei grandi flussi migratori che trasformano radicalmente la geografia urbana e sociale dell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta.

Seguiti da lì a poco dalla stagione dei movimenti intesi – in questo esempio – come momento di rottura fondamentale del tradizionalismo e del conservatorismo della società italiana.

Un fenomeno, quest’ultimo, che investe la società sia nei termini di una rottura di schemi radicati nel tempo, sia in termini di partecipazione diretta, e di progressiva laicizzazione delle istituzioni, sia – infine – in termini di apertura verso forme avanzate di società (si pensi ad esempio alle questioni legate alla famiglia, al divorzio, ma anche alla ripresa decisa dell’obiezione di coscienza e delle tematiche pacifiste ed antimilitariste) che avranno largo spazio dai primi anni Settanta in poi.

Alcuni di questi elementi sono presenti nei temi e nei principi dell’anarchismo delle origini e, in particolare, in quello italiano, quindi non incontrano molte difficoltà a penetrare all’interno del movimento a partire dall’inizio degli anni Sessanta; altri sono completamente nuovi (la trasformazione economica, la partecipazione elettorale di massa, il ruolo dei partiti, i rapporti a sinistra dello schieramento politico-sociale, la dimensione e il peso del pluralismo sindacale, i nuovi rapporti sociali e le nuove caratteristiche del militante politico, sia intermini di formazione, sia in termini di provenienza sociale), mentre ancora più dirompenti sono quelli provenienti dagli scenari internazionali: il ruolo egemonico svolto dalle due superpotenze nucleari, le guerre (dalla Corea al Vietnam, da Budapest a Praga), i movimenti di indipendenza dei paesi coloniali e la conquista della libertà, il fascismo in Spagna e le dittature in Grecia, Portogallo e in America Latina.

In tal contesto, innanzitutto, vanno metodologicamente inseriti alcuni elementi propri dell’anarchismo italiano, allorquando si presenta nuovamente sulla scena sociale italiana nel 1945.

Non è questo il luogo per ripercorrere anche brevemente le tappe che conducono il movimento anarchico italiano alla sua ricostituzione formale; basti solo accennare alle tante esperienze che quei militanti, diversamente tornati ad una politica attiva, compiono dal 1943 al 1945. Esperienze che ne segnano decisamente le scelte personali, ma anche quelle collettive, gettando le basi per i tanti contrasti e divisioni che ne caratterizzano la storia associativa nei decenni repubblicani.

E’ infatti molto diverso ciò che viene dibattuto per il futuro del movimento al nord e in parte del centro Italia durante l’occupazione nazifascista, rispetto a quello che viene elaborato nel sud della penisola velocemente entrato nel dopoguerra; saranno posizioni anche molto diverse che troveranno solo una momentanea sintesi al congresso costitutivo della Federazione Anarchica Italiana a Carrara nel settembre del 1945, e che – ben presto – vedranno emergere proprio la questione generale dell’attualizzazione del movimento rispetto alla società ed alla politica in formazione dalla fine del conflitto in poi. Contrasti e scontri che – centrati sulla questione organizzativa – ci permettono di cogliere l’entusiasmo dei militanti ma anche le loro difficoltà a rapportarsi con il nuovo scenario.

Un passaggio che ci induce ad una riflessione sulla mancata elaborazione intellettuale e del pensiero che l’anarchismo era stato costretto ad interrompere da tempo; è questo il secondo punto da porre in particolare evidenza: il continuo richiamo ai temi classici ed al pensiero di Errico Malatesta, infatti, pone in luce come l’elaborazione teorica e pratica per l’anarchismo italiano avesse subito una brusca rottura nella sua continuità, dovuta alla guerra ma ancor più al peso che la sconfitta nella Guerra di Spagna aveva avuto sui militanti.

Da un punto di vista generazionale siamo di fronte ad una sorta di anello mancante, rappresentato da quella generazione di militanti (Camillo Berberi in primis) che, pur nello sforzo intellettuale e nell’impegno nell’antifascismo e nella guerra, non era sopravvissuta al conflitto.

Il punto è che nell’immediato dopoguerra chi si ritrova a Carrara (unico momento in cui una Federazione anarchica riuscì a rappresentare larghissima parte del movimento, sempre inteso da tutti come una categoria più ampia), proviene non solo da esperienze talvolta molto diverse ma senza essere pienamente in grado di procedere – anche in termini di personalità – ad una riflessione ampia sull’attualizzazione del movimento anarchico italiano.

Terzo aspetto lo stalinismo; conosciuto in Spagna e combattuto in modo strenuo da tutti quei militanti, esso riappare sulla scena nazionale italiana – incarnato nell’URSS e nel PCI – considerati a tutti gli effetti dei nemici, ancor più dal momento in cui Togliatti attraverso l’amnistia da una parte contribuì ad una veloce normalizzazione e, dall’altra, ad un’epurazione sostanzialmente fallimentare.

Questi aspetti hanno, sulla dimensione quantitativa e sulla capacità di penetrazione sociale del movimento, effetti molteplici e contraddittori. Da una parte spinge ad una strenua difesa dell’identità e della tradizione che si rintraccia non solo nei comportamenti pubblici (le commemorazioni o le manifestazioni), volutamente considerati e giudicati veri e propri atti di reciproco riconoscimento culturale, sociale e di differenziazione, ma anche nei dibattiti interni e nei riferimenti congressuali.

Da un’altra costringe ancor più ad una posizione difensiva, destinata ad avere ripercussioni – in assenza di una elaborazione del pensiero – molto importanti sulla capacità di rivolgersi efficacemente alla società per come essa si stava ricostruendo e trasformando. Non trovare un rilancio e vedersi quasi schiacciati dalla preponderanza dei partiti e dal PCI in particolare, induce verso un rinchiudersi in sé stessi, avviando il movimento a vivere una profonda crisi in termini di militanza e di capacità di diffusione.

Quarto fra i tanti elementi che potrebbero essere presi in considerazione, è come il movimento tenta di reagire all’esterno. Sotto questo punto di vista la continua ricerca di uno sbocco della crisi è un elemento sempre presente, ma è destinato a scontrarsi sistematicamente sul principio organizzativo/associativo che deve o meno legare i militanti, e sul nodo delle alleanze. In tal senso gli aspetti ricostruttivi della storia del movimento negli anni della Repubblica, presentano molti spunti di interesse e ci lasciano significative tracce di vitalità, nella ricerca di possibili intese con la sinistra eretica ed anticomunista, ovvero con movimenti anche lontani dalle radici dell’anarchismo.

Sin dal congresso costitutivo della Federazione, dalla quale poco dopo si allontanerà un gruppo che andrà a fondare la Federazione Libertaria Italiana (FLI) e, più tardi, la rottura con coloro che proponevano la trasformazione dell’anarchismo in movimento orientato e federato (i Gruppi Anarchici di Azione Proletaria – GAAP), seguita a metà anni Sessanta dalla nascita dei Gruppi di Iniziativa Anarchica (GIA) in risposta ad una ristrutturazione ritenuta autoritaria della Federazione, ma anche dal costituirsi di una Federazione Giovanile Anarchica (FAGI) e dai Gruppi Giovanili Anarchici Federati (GGAF, divenuti più tardi GAF), il movimento aveva ricercato una strada in grado di renderlo visibile e attuale nella società.

E’, questo, un dato di fatto che deve far superare la semplice analisi delle rotture congressuali e delle accuse deviazioniste che venivano rivolte a chi proponeva di osservare la realtà in modo anarchico ma in quadro profondamente diverso dalla prima metà del secolo, a favore di una chiave di lettura che oggi possiamo individuare negli sforzi e nella vivacità di un’area certamente minoritaria, ma importante se collocata nelle analisi dei movimenti esterni alla sinistra tradizionale.

In ultimo, ma solo per ragioni di spazio, l’incontro con la stagione dei movimenti e, in particolare, con il ’68. In questo caso non possiamo non sottolineare come gli anarchici giunsero in ritardo a quell’appuntamento, ma ci giunsero, ritrovandosi al centro – non tanto nella loro qualità di militanti, ma soprattutto nelle tematiche che emergevano – di un fenomeno sociale individuale e collettivo al tempo stesso, contraddistinto in molte sue espressioni da temi e slogan direttamente riferibili all’anarchismo.

Cosa accadde al movimento in quel passaggio, e soprattutto dopo quel passaggio, è ancora poco affrontato dalla ricerca storica. Certamente alcuni temi ricevettero uno slancio nuovo destinato (come nel caso dell’obiezione di coscienza) a radicarsi nella società ma ad essere distaccati dall’originale radice anarchica, per entrare in un’altrettanto importante dimensione libertaria; altri erano destinati ad emergere più tardi e ad essere declinati in modo anche differente ma sempre più diffuso (le tematiche antinucleari e la sensibilità ambientale); altri ancora ottennero risposte più complesse, e assorbite negli anni anche da altre forze politiche, ma assolutamente rilevanti nella ricerca dei fili di continuità dell’anarchismo italiano come fu – ulteriore esempio – nel caso di alcuni temi trattati dalla stampa periodica del movimento dagli anni Cinquanta in poi (è il caso dei temi connessi al controllo delle nascite, alla pedagogia, all’istruzione, al ruolo della famiglia, ma anche sul divorzio e sul diritto all’aborto). 

Il movimento e la costruzione istituzionale

Tra il 1946 e il 1948 gli anarchici si trovarono ad affrontare due passag­gi decisivi. La fine dell’alleanza antifascista con l’insorgere della Guerra fredda e il pieno avvio dell’Italia repubblicana, con le tre scansioni rappresentate dal referendum istituzionale, dall’elaborazione e promulgazione del testo costituzionale e dalle elezioni del 18 aprile 1948.

Tre momenti che si intrecciavano con altrettanti capisaldi del pensare e dell’agire anarchico, e che segnano per quei militanti l’impatto con la costruzione della democrazia repubblicana.

In questo senso è ancora pienamente da riflettere su quanto questi passaggi abbiano inciso nel breve e nel medio periodo sullo stato generale del rinato movimento, soprattutto nella sua capacità di affermarsi nuovamente come soggetto attivo della società italiana del dopoguerra e nella ricostruzione, all’interno della quale le tensioni e le speranze tendevano sempre più a concentrarsi – oltre che nella contrapposizione ideologica – anche su quella della ricostruzione materiale, per imboccare un cammino che vedeva la costruzione di una sorta di Italian way of life basata – di fatto – sul modello di sviluppo connesso al Piano Marshall, e su quella della partecipazione diretta al rinnovamento istituzionale e politico che non poteva non passare attraverso il voto.

Il congresso di Carrara si era espresso a favore di un tradizionale astensionismo, ma questo non impedì che le questioni si pones­sero al centro del dibattito.

Per gli anarchici il problema elettorale non era una novità ed era stato dibattuto nei decenni precedenti incentrandosi sulle posizioni assunte a suo tempo da Francesco Sa­verio Merlino ed Errico Malatesta, mentre le oscillazioni che si osservavano nel 1946 sono spiegabili con il clima unitario che era sta­to vissuto negli anni della Resistenza, e che tendeva a spingere verso una partecipazione “perché nulla [fosse] sciupato per abbattere il re, dalle revolverate di Gaetano Bresci al referen­dum del 2 giugno”. Sembra così emergere non solo la tradizionale impo­stazione antimonarchica che imporrebbe a tutti di partecipare per abbat­tere la monarchia, ma anche una sorta di lettura del momento elettorale che l’Italia si apprestava a vivere; era infatti necessario, secondo alcuni, rifiutare il dogmatismo ideologico che negava la realtà referendaria, per­ché tale impostazione avrebbe riproposto un puro gusto per l’utopismo, difficile da far comprendere agli italiani dopo il fascismo, la Resistenza e la costruzione delle nuove istituzioni.

Nonostante la posizione astensionista assunta dalla FAI, il dibattito rese evidente un malessere verso posizioni, certamente coerenti con la tradizione, ma politicamente deboli; un malessere che ci permette di cogliere come la situazione interna del movimento non fosse omogenea.

Sulla questione referendaria ed elettorale, comunque, la posizione federale rimase maggioritaria, ribadendo il netto rifiuto di questi strumenti, costruiti in funzione del potere, e rappresentativi della volontà di controllo sociale insito nella delega elettorale: l’invito rivolto a tutti i militanti, di conseguenza, non poteva non essere un forte richiamo al tradizionale astensionismo contro quella che veniva individuata come una legittima­zione della condotta normalizzatrice dei partiti, contro il riconoscimento che si darebbe dello Stato, e contro quello che veniva considerato un vero e proprio esproprio dell’in­dividuo, costretto a delegare ad altri le sue scelte ma anche la sua libertà individuale e collettiva. Sulla questione referendaria la condanna della monarchia (come istituzione e come complice del fascismo) era quindi scontata, ma questa posizione non significava che la forma repubblicana sia in senso occidentale, sia nei termini “popolari” dell’Est europeo, fosse l’al­ternativa.

Entrambe venivano accusate di essere sfruttatrici e portatrici di forme autoritarie e dittatoriali, tali da impedire la vera espressione del sentimento del popolo e del singolo, perché alla base di tutto rimaneva la loro incapacità di affrontare e risolvere la questione sociale e il proble­ma di una reale libertà. Gran parte del movimento si attestò quindi su queste posizioni, ma gli orientamenti alla partecipazione in senso antifascista, antimonarchico, e a favore del diritto di voto esercitato per la prima volta dalle donne, non furono pochi.

Una differenziazione di comportamento rispetto alla tradizione che sembra derivare dal congiungersi di due elementi. Il primo rapportabi­le al clima della lotta partigiana condotta fianco a fianco con i militanti di altri partiti in nome della libertà e dell’abbattimento del fascismo e della monarchia. Il secondo – osservato da Ilari ma da approfondire ul­teriormente – di natura psicologica, collegato alle difficoltà di “doversi giustificare davanti a comuni cittadini […] che non capivano perché, finalmente crollato il fascismo, gli anarchici non votavano, come se si disinteressassero di agire direttamente”.

L’Italia poco dopo divenne una Repubblica democratica fondata sul lavoro: “non mi feci illusioni sull’interpretazione non classista, ma che almeno ci fosse un riconoscimento del fatto che una repubblica non possa fondarsi sul privilegio e sullo sfruttamento del lavoro altrui, mi piaceva […]. Dubitavo come tutti i compagni che lo Stato avrebbe provveduto celermente a togliere le limitazioni alla libertà ed all’uguaglianza […], ma fidavo molto, invece, sull’azione consapevole ed estesa dei lavoratori organizzati nel sindacato”.

“Esaurita la spinta propulsiva” della Re­sistenza e finita ogni tensione antimonarchica, il movimento si venne poi a trovare a dover fare i conti “con la propria storia”.

La piena accettazione del blocco occidentale, l’esclusione delle sinistre dal governo e la rottura dell’unità sindacale, se chiarirono il campo italiano della Guerra fredda, sospingendo verso una svolta mo­derata e conservatrice il contesto nazionale, ebbero una significativa incidenza sul movimento che si vide schiacciato fra i due poli ideologici, e spinto a contrapporsi al suo interno su una serie di temi tradizionali che si agganciavano a quelle tendenze che lavoravano per un aggiornamento e una attualizzazione del pensiero e della prassi anarchica anche attraverso una ripresa del dibattito sulla questione dei rapporti con le altre forze della sinistra, così come quello sulla crisi dell’anarchismo aclassista e indivi­dualista.

Non fu un caso che – per ribadire la propria originalità e la propria identità e per sgombrare il campo da ogni possibile deviazionismo – Umanità Nova riprese e pubblicò un opuscolo pubblicato a New York nel 1927 da Armando Borghi sul problema delle alleanze. I tempi erano certo diversi ma il significato del­la sua nuova pubblicazione erano tutti nel sottotitolo: “gli anarchici e le alleanze: ciò che si disse ieri per oggi e ciò che si dice oggi per doma­ni”. Nei confronti dei partiti andava mantenuta l’opposizione di sempre: “ogni politica di fusione e di alleanza […] è da respingere come confu­sionaria, anticlassista e più certamente antianarchica”, quindi era neces­sario “non cadere in inganni anche se dalle apparenza attraenti”. Verso i partiti definiti autoritari e sovversivi si constatava una tendenza rivolta più “ad arrestare che non a favorire la rivoluzione a carattere popolare e sociale […]. In quanto ispirati dalla necessità della conquista del potere […] non soddisferanno nemmeno le aspirazioni dei proletari loro aderenti”.

Questo era una sorta di dovere primario “per la difesa dei loro compagni sacrificati in Russia da un governo che soffoca, a un tempo, il comunismo e la rivoluzione”.

Anche l’entrata in vigore della Costituzione non poteva lasciare insensibili. Anche in questo caso venne ripresa la tradizione riproducendo un testo di Er­rico Malatesta del 1924 che doveva rendere chiara la posizione da assu­mere: “Tra costituente e dittatura non vi è differenza essenziale. L’una e l’altra so­no dei poteri che assommano nelle loro mani tutte le forze sociali[…] in realtà sono sempre […] minoranze che soffocano ogni libera iniziativa ed impongono […] il dominio di una casta o di un partito […] in realtà una differenza vi è: […] la dittatura è lo scopo raggiunto […] la costituente è ancora la lotta tra i partiti per conquistare il dominio. [Questa] ha biso­gno, fino a che uno dei partiti non sia riuscito a imporsi, di fare appello al consenso della maggioranza … e lascia aperti degli spiragli alla libertà […].

Fortunatamente vi è un altro mezzo di uscita […] che è l’azione diretta delle masse. [La Costituente] è sempre un corpo legislativo, eletto a mag­gioranza, che vota la costituzione a maggioranza e l’impone con la forza ai dissidenti, che potrebbero poi essere la maggioranza”.

Ancor più esplicite le note pubblicate da Umanità Nova a commento degli articoli relativi alla guerra. Rispetto all’articolo 2, il ripudiare la guerra venne definito come una semplice e buona in­tenzione, suscettibile di essere messa da parte in caso di necessità; ancor più per l’articolo 37 dove l’indicazione della responsabilità delle Camere a deliberare lo stato di guerra, veniva considerato un semplice espediente “democratico”, in grado di permettere alla classe dirigente di gettare tut­ta la responsabilità di un tale atto sull’assemblea rappresentativa, conti­nuando a sfruttare il potere parlamentare e a disporre abusivamente della volontà generale, contenuta nella rappresentanza politica. Rimaneva il fatto che per gli anarchici non era mai esistito e non sarebbe mai potuto esistere che un testo costituzionale, tale da assicurare e difendere appie­no la libertà del singolo senza riuscire a superare la continuità di antichi privilegi economici e sociali.

Con l’avvio della campagna elettorale gli anarchici sono in piena attività, anche se le po­sizioni astensioniste continuavano a creare un qualche disagio e incomprensione “a sinistra e nei settori giovanili del movimento”[, per il tentativo di legare l’incisività di questa linea agli spazi lasciati liberi dalle nuove posizioni assunte dal PCI e dal PSI.

Uno dei temi più ricorrenti per sostenere l’astensionismo divenne così il ricorrente attacco a quella che era ritenuta una inaccettabile somiglianza fra tutti i programmi presentati dai partiti; elemento giudicato di per sé negativo, ma ritenuto ancor più grave nello schieramento frontista che, in questa omogeneità, dava pro­va dell’insufficienza dell’opposizione.

Il risultato elettorale del 18 apri­le 1948, fece aumentare i toni critici verso la sinistra, accusata di non essere riuscita a contrastare quella che era ritenuta una vittoria delle forze tese a una stabilizzazione del conte­sto italiano e a una sua normalizzazione basata su quei centri del potere economico, culturale (la chiesa innanzitutto) e politico (il blocco occi­dentale), espressioni della spinta conservatrice e reazionaria iniziata con la rinuncia a proseguire lungo la strada della trasformazione sociale insita nel movimento resistenziale.

Il periodo che inizia con l’estromissione delle sinistre dal governo e giunge fino alla metà del ’48, segna un mutamento di scenario politico nazionale che, nel passaggio del PCI e del PSI all’opposizione e poi nella formu­la del Fronte popolare, genera una contrapposizione con gli anarchici per l’ege­monia assunta dal PCI tale da porre in evidenza i lati deboli della ricostruzione del movimento, determinando altresì un rafforzamento delle tendenze interne favorevoli all’apertura verso possibili collaborazioni con la dissidenza a sinistra del Fronte popolare, foriere di dure contrappo­sizioni.

I risultati e il contesto all’interno del quale si sviluppa quella prima campagna elettorale, quindi, sembra­no (paradossalmente per un movimento come quello anarchico) il punto di inizio del percorso di divisione interna, operato da alcuni gruppi che avviarono quel dibattito, poi divenuto lacerante, teso ad attualizzare il movimento attraverso il recupero di forme organizzative e impostazioni teoriche non del tutto appartenenti all’anarchismo e poi, via via, sempre più marcatamente marxiste-leniniste.

Temi antichi tornano attuali

Con la fine del conflitto tendono progressivamente a riemergere episodi di un diffuso rifiuto del militarismo inizialmente collegati ad una chiara espressione politica di lotta contro ogni forma di autoritarismo e di gerarchizzazione; lentamente questo tema tende ad orientarsi a favore di una esplicita obiezione di coscienza fino a diventare una delle filiere espressive, decisamente trasversale, che caratterizza in senso libertario la stagione dei movimenti e i successivi anni Settanta e Ottanta.

Anche in questo caso, nella sua ripresa postbellica, agiscono elementi interni al movimento fortemente legati alla tradizione che tuttavia, nello stesso tempo, si collegano ai nuovi scenari internazionali (la lotta contro gli imperialismi e contro ogni guerra, contro gli armamenti nucleari e – più tardi – contro l’utilizzo civile di questa fonte energetica) connettendo la fine delle speranze rivoluzionarie post-resistenziali, con una maturazione nella società di temi – come la non violenza ed il pacifismo – che erano nel solco della storia dell’anarchismo.

Per gli anarchici questo recupero inizia attraverso azioni clamorose, ma anche attraverso un intenso dibattito interno alla Federazione, nel movimento ed in alcuni gruppi (per i quali – come esempio – vale ricordare l’esperienza di Gaetano Gervasio e del gruppo Milano 1); con manifestazioni, conferenze ed iniziative al fianco di altre forze pacifiste come la Lega per il Disarmo; attraverso un’attività giornalistica attenta alle connessioni politiche e ideologiche che il confronto bipolare produceva nella società, in termini di contrapposizione fra i diversi imperialismi, man­tenendo costante il riferimento all’esperienza compiuta durante la guerra civile spagnola.

Attraverso, infine, complesse e tal­volta ostacolate aperture verso movimenti diversi dall’anarchismo, che ponevano al centro il problema della pace e del di­sarmo, come fu nel caso dell’azione di Pier Carlo Masini che, già nel 1948, partecipò al primo convegno di rinnovamento politico promosso da Aldo Capitini, Nicola Chiaromonte, Ferdinando Tarta­glia, nell’intento di favorire l’incontro fra anarchici, non violenti, pacifisti, liberi reli­giosi.

I primi obiettori di coscienza rapportabili esplicitamente al movimento anarchico provengono dalla zona di Sanremo: “il nostro antimilitarismo […] era pura ribellione”, che non ragionava in termini di servizio civile alternativo e nemmeno per l’influenza dei gran­di non violenti; praticavano apertamente la loro opposizione al servizio militare, all’articolo 52 della Costituzione, aumentando i loro sforzi con la crescita delle tensioni della Guerra fredda e mentre le autorità militari vagliavano e schedavano questi comportamenti .

Come in altre manifestazioni del dissenso nell’Italia di que­gli anni, anche per l’obiezione di coscienza (ancor più se di origine li­bertaria) sembrava scattare un meccanismo di rimozione; se infatti andiamo a ripercorrere quegli episodi, incon­triamo militanti il cui caso venne del tutto soffocato dalle autorità come fu per Libereso Guglielmi il quale, chiamato alle armi a metà del 1948 non si presentò, fu rintracciato, condotto a Savona denunciato, e posto in congedo illimitato una prima volta; nuovamente arrestato dopo pochi giorni rimase prima in attesa di giudizio, poi in libertà provvisoria e poi nuovamente in congedo senza che più nulla si seppe del ricorso avanzato dagli inquirenti i quali, sollecitati in questa direzione, non vollero far emergere il problema dell’obiezione di coscienza ottenendo così due risultati: far cessare ogni pericolo per una possibile campagna stampa risolvendo la posizione individuale di Guglielmi, e – secondo – impedire a un anar­chico di essere il primo obiettore italiano del dopoguerra.

Al suo caso ne seguirono altri: quello di Pietro Pinna che non è un anarchico ma è il primo obbiettore “ufficiale”, quelli quasi sconosciuti di Francesco Buraglio di Alessandria condannato nell’ottobre del 1949 e quello di Antonio Pantoni di Melfi, e di Elevoine Santi.

Con Pietro Ferrua cominciano a emergere i militanti anarchici; sia­mo nel marzo 1950 e il suo caso irrompe sulla stampa del movimento, seguito da Mario Barbani che rifiuta il servizio militare il giorno della sfilata dei reparti di reclute a Palermo. Barbani non si dichiarerà anarchi­co, tale lo definiranno i magistrati incaricati di giudicarlo, lo diventerà velocemente poco dopo.

Sarà sempre Barbani nell’estate del 1953 ad es­sere uno dei protagonisti e organizzatori con la federazione livornese del primo campeggio anarchico a Marina di Cecina dove – attraverso Pietro Ferrua – conoscerà Aldo Capitini. Angelo Nuzza sarà il terzo obiettore anarchico sanremese, sicuramente stimolato nelle sue posizioni da Gu­glielmi e Ferrua dei quali era grande amico. La sua vicenda inizia nella tarda estate del 1950 quando, ospite della famiglia di Umberto Marzoc­chi che lo aveva accolto per dargli modo di prendere ogni decisione in merito alla leva, viene chiamato alla armi; nell’ottobre fu denunciato per diserzione, ma le autorità militari esitarono nel perseguirlo nel timore di creare un nuovo caso, due mesi dopo venne condannato a un anno e quattro mesi, la sua difesa era stata condotta da Giuliano Vassalli.

Sarà quindi a metà del decennio che il tema dell’antimilitarismo – ancora declinato lungo la strada dell’antimperialismo – comincia ad assumere le caratteri­stiche dell’obiezione di coscienza, recuperando non solo i temi tradizionali dell’opposizione alla guerra, ma anche quelli legati al confronto bipolare ed ai processi di decoloniz­zazione. Non si trattò, tuttavia, di un’acquisizione di elementi teorici ed esperenziali provenienti dall’esterno, come nel caso dei grandi movi­menti pacifisti rapportabili all’indipendenza indiana o contro la guerra di Corea e in Vietnam (con i quali comunque si sarebbe più avanti accavallato), bensì di un pro­cesso interno, che correva parallelo all’intreccio politico con altri mo­vimenti, determinatosi attraverso l’agire simultaneo di differenti fattori. In questo senso tre sembrano essere i passaggi più interessanti: la ricerca di una nuova dimensione teorica e pratica per l’a­narchismo nell’Italia del dopoguerra che conduce alcuni militanti all’in­contro con esponenti e idee differenti dall’anarchismo; il recupero dei tratti più evidenti della lotta contro l’autoritarismo e il militarismo che, ripresi anche da Giovanna Berneri e Cesare Zaccaria attraverso “Volontà”, diffondevano il tema del pacifismo, stimolandone l’evoluzione verso l’obiezione di coscienza; il dibattito interno alla FAI sul ruolo e peso del militarismo (questione sempre presente negli ordini del giorno dei congressi), appro­fondita dalla Commissione antimilitarista, propagandata at­traverso “Umanità Nova”, ma anche con l’organizzazione di giornate e conferenze sui temi della guerra.

Di conseguenza, quando nel 1965, si chiude il processo a Sandro Viola e Ivo Della Savia, accusati di aver proclamato e difeso la libertà di coscienza rispetto al servizio militare, questi temi e la loro evoluzione verso contro la leva obbligatoria e per l’obiezione di coscienza, si erano diffusi nelle nuove generazioni, trovando un’amplificazione inaspettata in quelle molteplici culture non direttamente rapportabili all’area dell’anarchismo, determinando prima una loro diffusione trasversale e poi un rapido allargamento in termini di impatto nel tessuto della società italiana.


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