Benvenuti a questa recensione di una recensione, un viaggio attraverso le intricate spirali del pensiero e della critica. In un atto ricorsivo di riflessione autoreferenziale, ci addentriamo nell'analisi di "Elogio della Militanza", esaminando non solo il contenuto del testo in questione, ma anche la nostra interazione con esso. Proprio come l'autore dell'articolo originale ha affrontato il libro di Roggero, ci addentriamo nelle profondità dei paragrafi, tracciando un percorso di contestazione e sarcasmo dall'angolazione di un attivista anarchico che ripudia la militanza.

📃 Iniziamo scomponendo l'articolo pubblicato originariamente su InfoAut:

Attivismo e militanza non sono concetti sinonimi o ambivalenti: presuppongono opposte visioni della politica e sedimentano antitetiche coscienze dell’esistente e degli strumenti per combatterlo. In altre parole, il militante è figura politica, di parte, che attraverso il sacrificio e la disciplina dichiara guerra all’individuo liberale in favore del divenire rivoluzionario dell’individuo sociale; l’attivista è al contrario l’innocua figura volontaria che tenta di ricomporre ciò che invece andrebbe disarticolato socialmente per essere ricomposto politicamente contro e non al posto di. Sacrificio e disciplina: quale distanza tra questi due concetti e le forme attuali della partecipazione politica? Una distanza talmente profonda che anche laddove presenti – e sono continuamente presenti nella militanza quotidiana – vengono taciute, negate, quasi che imporsi un sacrificio o costringersi in una disciplina collettiva rimandi a forme e metodi di una lotta politica da cui finalmente si sono prese le distanze. Il militante, ci dice Roggero, è la figura fondamentale della politica rivoluzionaria. Traduce la linea politica verso il basso e la corregge verso l’alto. E’ la cerniera tra la teoria e la pratica, quel “medio raggio” che rappresenta il cuore dell’agire politico. E’ la figura che combina incessantemente la “massima rigidità strategica” con la “massima flessibilità tattica”, è in altre parole la personificazione della dialettica leniniana, colui che sta dentro le contraddizioni agendo da detonatore, sempre in bilico tra dogmatismo e opportunismo, senza mai scivolare nell’uno o nell’altro dei poli della rigidità politica della teoria senza traduzione pratica e della prassi senza strategia politica.

Fantastico! Eccoci al primo paragrafo, in cui l'autore sembra indulgere in una sorta di celebrazione romantica della militanza e sminuire l'attivismo come una forma di impegno politico "innocuo". Ma chi si è mai preso la briga di glorificare la militanza come se fosse l'apice della politica rivoluzionaria? Davvero, sembra che stiano cercando di farci credere che il militante sia una sorta di supereroe politico, il cui unico scopo nella vita è combattere contro l'individualismo liberale.

E poi, cosa intendono per "sacrificio e disciplina"? Come se fossero le virtù supreme della militanza. Oh, certo, sacrificarsi e auto-costringersi in una disciplina collettiva, perché chiunque vorrebbe fare una cosa del genere, giusto? Ci stiamo perdendo nella retorica romantica della lotta politica, dove il militante viene dipinto come una sorta di mistico dotato di saggezza superiore, capace di tradurre la linea politica verso il basso e correggerla verso l'alto. È come se fosse la reincarnazione di Lenin stesso, con una "massima rigidità strategica" e "massima flessibilità tattica". Che meraviglia!

Ma a noi, poveri attivisti, è concesso solo tentare di ricomporre ciò che dovrebbe essere disarticolato socialmente per essere ricomposto politicamente contro. Che peccato! Chissà perché l'autore tratta l'attivista come se fosse solo un dilettante politico, mentre il militante è il vero e unico custode della vera dialettica leniniana. Ma ci vuole del coraggio per mettere in discussione questa narrazione romantica e disillusa della militanza. Oh, sì, perché chi vorrebbe mai osare dubitare della perfezione del militante come detonatore delle contraddizioni?

In ogni caso, forse è meglio per noi attivisti restare nel nostro angolo "innocuo" e lasciare che i militanti godano della loro apparente superiorità politica. Chissà, forse un giorno ci chiederanno di ricomporre qualcosa socialmente per poi distruggerlo politicamente! Potrebbe essere il colmo della rivoluzione!

L' articolo prosegue:

Se il militante è la figura a cui parla il libro di Roggero "Elogio della Militanza", il tema affrontato nel saggio recentemente pubblicato è specificato nel sottotitolo: note su soggettività e composizione di classe. Temi in qualche modo ricorrenti in questo ultimo decennio, una lunga fase di “transizione declinante” che ha spinto le avanguardie più coscienti, o semplicemente più curiose, a cercare una risposta alla crisi politica della sinistra radicale partendo dall’inividuazione dei soggetti da organizzare e dalle nuove forme organizzative che da questi scaturiscono. Nel predisporre un discorso per definizione in fieri, quindi necessariamente non concluso e in corso di aggiustamento, l’autore indica una linea politica ben precisa: tornare all’operaismo per rompere con il post-operaismo, cioè con una “tradizione” politica che dagli anni Ottanta ha egemonizzato il piano culturale e dell’azione politica dei movimenti antagonisti in Italia.

 

Non ha posizioni precostituite da difendere Roggero, e questo permette un discorso sincero, efficace, sebbene storicamente e filosoficamente determinato. “Diciamolo così, in modo netto: il cosiddetto post-operaismo è finito […] Ora il compito è ritornare all’operaismo, non certo contro ma sicuramente in modo critico rispetto a ciò che del post-operaismo non funziona più, oppure non ha mai funzionato”. Una rottura non semplice per chi in qualche modo ha condiviso molto di quel pensiero nella propria formazione politica, e che parte da premesse filosofiche precise che vanno lette e interpretate con attenzione. Riprendendo la lezione operaista, soprattutto trontiana, Roggero pone al centro dell’analisi del e sul capitale il conflitto tra questo e il lavoro di fabbrica. Non è il capitale che costituisce la classe operaia ma il contrario: è il proletariato che attraverso i suoi percorsi di resistenza costringe il capitale ad innovarsi prendendo la forma attuale e in continua evoluzione. La classe operaia in altri termini è il motore dello sviluppo, e le lotte operaie lo strumento attraverso cui il capitale innova se stesso: “il pensiero nasce sempre dalla contrapposizione […] Sono le lotte a determinare lo sviluppo, prima viene la classe poi il capitale. Interpretare il capitale a partire da se stesso è una proiezione ideologica”. Seguendo tale impostazione, l’autore arriva a concludere che la classe “non è una questione di stratificazione, ma di contrapposizione […] La classe, per Marx e per noi, è un concetto interamente politico. Classe significa antagonismo di classe. Con Tronti: non c’è classe senza lotta di classe”.

Ma guarda un po', sembra che l'autore si diverta a scagliarsi contro il cosiddetto "post-operaismo" e a glorificare l'operaismo come se fosse la risposta a tutti i nostri problemi politici. Davvero, tutto questo fervore per tornare alle vecchie glorie dell'operaismo sembra un po' troppo nostalgico. Come se rivangare "un" passato potesse magicamente risolvere tutte le crisi politiche e culturali che stiamo affrontando.

E poi, oh sì, siamo tutti così felici di vedere quanto l'autore si presenti come un sapiente impartitore di verità, sostenendo di non avere posizioni precostituite da difendere. Ma naturalmente, affermare di essere neutrale mentre si abbraccia incondizionatamente l'operaismo è proprio la definizione di sincerità e oggettività, vero?

Inoltre, affermare che il post-operaismo sia finito e il compito sia ritornare all'operaismo in modo critico è davvero una strategia audace. Mah, ma forse è perché hanno condiviso così tanto del pensiero post-operaista che ora vogliono rinnegarlo, come se fosse una moda passata. Oh, ma naturalmente, dobbiamo leggere e interpretare le loro premesse filosofiche con attenzione.

E poi, ecco che arriviamo alla parte in cui si glorifica la classe operaia come il motore dello sviluppo e le lotte operaie come il mezzo attraverso cui il capitale si evolve. Sembra che l'autore sia davvero affascinato da questa idea di contrapposizione tra classe e capitale, come se fosse la chiave per comprendere tutto il funzionamento della società. Ma forse, solo forse, ciò che manca è una visione più ampia e inclusiva della complessità delle relazioni sociali e politiche.

In ogni caso, mi chiedo se l'autore abbia davvero ragione nel definire la classe come una questione di contrapposizione anziché stratificazione. È davvero così semplice? E che dire dell'idea che non ci sia classe senza lotta di classe? Sembrerebbe che stiano cercando di ridurre tutto a una semplice formula, ignorando la vastità delle dinamiche sociali e i molteplici fattori che influenzano il nostro mondo.

Potremmo continuare riprendendo altri frammenti del discorso, ma il senso dovrebbe essere a questo punto svelato: recuperando radicalmente l’impostazione operaista, l’autore ci dice che lo sviluppo umano, la natura stessa dell’uomo, è una natura contrappositiva, conflittuale, ontologicamente divisa e divisiva. Le diverse fasi dello sviluppo corrispondono alle diverse forme di resistenza che i soggetti subalterni hanno messo in pratica contro i soggetti economicamente e politicamente egemoni; infine, che l’innovazione organizzativa capitalistica deriva dalla rigidità operaia. Bisogna essere coscienti che tale impostazione è di natura filosofica e non contingente, e che ha poco a che fare con il pensiero di Marx. Secondo Marx infatti l’origine dello sviluppo umano, dell’uomo in quanto animale sociale, è la cooperazione, data in forma alienata per ragioni storiche verificabili (e che Marx per l’appunto verifica nelle sue opere e soprattutto nel Capitale), e che costituisce il presupposto e il fine delle lotte di classe: quello della riappropriazione del momento cooperativo in forma non mediata dal profitto privato. Il problema non è però solamente filosofico.

 

Economicamente, Roggero legge le continue evoluzioni del capitale come risposta alla rigidità operaia che di volta in volta organizza le sue forme di resistenza. E’ una visione quantomeno parziale dello sviluppo capitalistico. Il capitalismo infatti opera costantemente forme proprie di rigenerazione – è un processo sociale in continua evoluzione – soprattutto per sue caratteristiche interne. Il capitalismo è in realtà un campo di scontro tra capitali concorrenti, capitali che trovano una propria unità solamente nei momenti di conflitto con i soggetti subalterni, ma che fuori o parallelamente da questi sono naturalmente predisposti alla competizione interna, che è una competizione violenta per estromettere dai processi di valorizzazione capitali concorrenti. Sono le continue innovazioni tecnologiche dei capitali in competizione che impongono al capitalismo nel suo insieme una costante evoluzione, non certamente o esclusivamente progressiva, ma perennemente cangiante. Inoltre, le continue innovazioni tecnologiche che stanno alla base della costante ridefinizione produttiva del capitalismo, costituiscono la risposta non coordinata alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. E’ tale caduta tendenziale, prodotto dal costante aumento della produttività del lavoro (attraverso l’aumento della composizione organica del capitale) sganciata dalla valorizzazione del capitale (valorizzazione declinante proprio dall’aumento progressivo del capitale costante in rapporto a quello variabile), che provoca le crisi cicliche che costringono i capitali concorrenti alla guerra e ai reciproci tentativi di eliminazione. In tale dinamica si situa poi la conflittualità operaia, che è sicuramente un elemento capace di modificare i piani del capitale, ma di certo non l’unico, e probabilmente neanche il più rilevante. E’ un elemento presente nel conflitto storicamente determinato tra soggetti produttivi e rapporti di produzione, ma che da solo non spiega la natura evolutiva del capitalismo.

Ecco che l'autore si lancia in una nuova ondata di idealizzazione dell'operaismo, insistendo sul fatto che l'essenza stessa dell'uomo è conflittuale e contrappositiva. Davvero, sembra che cerchino di farci credere che la nostra natura sia intrinsecamente divisa e divisiva, come se il conflitto fosse la norma piuttosto che l'eccezione. Ma forse ci piace pensare di essere creature più complesse di quanto suggerisca questa visione riduttiva e stereotipata dell'umanità.

Ma veniamo alla parte economica, dove l'autore sembra attribuire tutte le evoluzioni del capitalismo alla "rigidità operaia". Come se fosse solo il conflitto tra il capitale e i soggetti subalterni a guidare il capitalismo in un percorso di evoluzione. Ma come possono ignorare completamente la natura stessa del capitalismo come campo di scontro tra capitali concorrenti? Ah, ma è più facile abbracciare la narrazione romantica dell'operaismo come motore dello sviluppo, vero?

E poi, ovviamente, non possiamo dimenticare la caduta tendenziale del saggio di profitto e le crisi cicliche del capitalismo. Sì, sembra che l'autore abbia trovato un nuovo nemico da incolpare per tutte le sue lacune teoriche: la "rigidità operaia"! Ma, chissà, forse dovrebbero guardarsi un po' intorno e vedere tutte le complessità e le dinamiche interne del capitalismo che influenzano il suo costante processo di evoluzione.

L’operaismo rimane in un certo senso vittima di una sua prospettiva radicalmente sociologica: pone al centro di tutto la soggettività operaia perdendo di vista il quadro oggettivo dei rapporti di produzione. Dileguando ogni riferimento oggettivo, la rottura filosofica compiuta da Negri è tutto sommato conseguente. A quel punto il soggettivismo ha scalzato l’oggettivismo marxista producendo di converso una teoria politica nei fatti interclassista, che infatti è giustamente posta a critica nel proseguo del volume, che disvela le tare post-operaiste come solo un sapiente intellettuale militante di quel mondo potrebbe fare.

 

Tutto risolto dunque? Per niente. L’operaismo ha avuto un ruolo politico decisivo nelle lotte di classe del nostro paese: quello di dare sostanza teorica e prospettiva politica ad un pezzo di classe in rotta con la rappresentanza ufficiale del Pci. L’operaismo rompe il vicolo cieco in cui la rappresentanza operaia si era rinchiusa: da una parte la concertazione del conflitto economico attraverso i sindacati; dall’altra la rappresentanza politica nelle istituzioni preposte attraverso il partito in fase di transizione. Stretta tra queste due maglie politicamente annichilenti, scompariva in Italia ogni ipotesi di cambiamento radicale dell’esistente che non passasse attraverso l’onda lunga della prospettiva radicalmente socialdemocratica del Pci. Ecco perché non basta liquidare un patrimonio di idee e di inchiesta operaia che, seppur da impostazioni filosofiche discutibili, ha avuto un ruolo politico comunque importante. Rompere con il post-operaismo potrà produrre un fecondo passo in avanti nelle strategie della sinistra antagonista solo se non si ricadrà nel radicale soggettivismo in cui era finita l’esperienza operaista. Alla soggettività sociologica per cui la classe non è un mero dato oggettivo-economico ma soprattutto un dato politico e conflittuale, deve sommarsi lo studio dei modelli produttivi entro cui si situa la conflittualità operaia (dove per operaia, ovviamente, non si deve intendere quella dell’operaio della grande fabbrica fordista, ma dei nuovi soggetti sociali disponibili alla lotta e centrali nel processo di accumulazione capitalista nei paesi a capitalismo maturo).

Pare che l'autore finalmente si accorga delle limitazioni dell'operaismo e della sua prospettiva sociologica. Finalmente qualcuno che osa mettere in discussione questa narrazione romantica e soggettivistica dell'operaismo, che sembra mettere al centro solo la soggettività operaia ignorando il quadro oggettivo dei rapporti di produzione. 

Oh, ma naturalmente, l'autore deve sminuire questa "rottura filosofica" compiuta da Negri, che ha portato a una teoria politica interclassista. Sembra che stiano cercando di ridurre tutto a un conflitto di idee, ignorando la realtà dei rapporti di potere e le dinamiche complesse della società.

Ma poi, ovviamente, l'autore sente il bisogno di lodare l'operaismo per il suo ruolo politico nel fornire una prospettiva di lotta contro la rappresentanza ufficiale del PCI. Come se l'operaismo fosse l'unico baluardo contro la socialdemocrazia del PCI.

E poi, ecco l'invito a non liquidare completamente l'operaismo, perché ha avuto un ruolo politico importante. Ma si potrebbe anche chiedere se questo ruolo sia stato davvero così rivoluzionario e significativo come si vuole far credere. E, certo, bisogna fare un passo avanti, ma non ricadere nel radicale soggettivismo dell'esperienza operaista.

Ma poi, come sempre, ci viene ricordato che la classe operaia non è solo un dato oggettivo-economico, ma soprattutto un dato politico e conflittuale. Oh, come siamo fortunati a ricevere queste sagge lezioni sulla natura della classe operaia! Ma forse è anche il momento di considerare che la classe operaia non è un blocco omogeneo, ma è composta da diverse realtà e interessi, e che le lotte e i modelli produttivi possono variare notevolmente in base al contesto e alle condizioni specifiche.

Insomma, sembra che l'autore continui a insistere sulla grandezza dell'operaismo, ignorando le sue lacune e cercando di trovare un modo per abbracciare una visione più completa della realtà. Ma, come al solito, continueremo a osservare questa celebrazione romantica mentre il resto di noi cerca di affrontare le sfide del presente con una visione più realistica e inclusiva.

Il cuore del saggio non si situa però nelle sue premesse filosofiche, sebbene dall’autore poste a premessa del discorso, ma da una possibile, o potenziale, traduzione militante all’altezza dei tempi. E’ qui che il ragionamento raggiunge il suo culmine e si fa a nostro giudizio più convincente. La critica a certe degenerazioni movimentiste è spietata. Vengono presi di mira tutti i cliché ideologici di un certo pensiero mainstream che ha trovato ricezione anche all’interno dei movimenti antagonisti: l’economia sociale e la cooperazione agitate contro l’economia pubblica che, lungi dal “rappresentare un terzo settore rispetto a Stato e mercato, è una delle forme che la privatizzazione del pubblico ha assunto”; “l’autoimprenditorialità diffusa” dei centri sociali, “che produsse modesti risultati dal punto di vista economico ma contribuì a produrre una soggettività politica cresciuta con una prospettiva da amministratore più che da militante”; l’(auto)identificazione tra militante e precario, risultato di una “frettolosa autoinchiesta vittima di una autoreferenzialità strategica”, che ha prodotto l’indebita identificazione tra “militante” (ormai attivista) e “classe”; una certa centralità acritica delle lotte sui bisogni primari, come quelle sulla casa, che in alcuni casi “feticizza il bisogno, non riuscendo ad andare oltre la sua soddisfazione, creando isole urbane di autogestione della marginalità e della miseria”; una presunta e pretesa autogestione dei “saperi” del cd “cognitariato”, al contrario costantemente “modularizzato, amministrativizzato, managerializzato, budgetarizzato, banalizzato, precarizzato, utentizzato”, in altre parole catturato a valle e messo a profitto per il capitale, completamente sottratto al controllo dei produttori; e via continuando. All’indebolimento del pensiero – potremmo aggiungere noi: all’infatuazione per il pensiero debole e particolare, ideologicamente avverso ad ogni piano generale – non è seguito un potenziamento della prassi. “La moltitudine è tutto, la composizione di classe nulla. La scuola è rimasta senza movimento, i codici accademici hanno inghiottito il conflitto di classe”.

Oh, finalmente sembra che l'autore inizi a mettere in discussione alcune delle degenerazioni movimentiste e dei cliché ideologici presenti nei movimenti antagonisti. La critica è spietata e mira a smascherare alcune concezioni che si sono diffuse anche all'interno di tali movimenti.

È affrontata l'idea dell'economia sociale e della cooperazione come alternative all'economia pubblica, rivelando come queste forme spesso siano solo una maschera per la privatizzazione del pubblico. E che dire dell'autoimprenditorialità diffusa nei centri sociali, che sembra più un tentativo di amministrare che di militare? Sembra che abbiano perso di vista il cuore della militanza a favore di una visione più burocratica.

L'autore critica anche l'identificazione tra militante e precario, sottolineando che ciò ha portato a una visione distorta della classe e alla perdita della prospettiva militante. E le lotte sui bisogni primari, come quelle sulla casa, sembrano essere state ridotte a mere isole di autogestione senza una reale trasformazione sociale.

Ma non è tutto: l'autore smaschera anche la presunta autogestione dei saperi del "cognitariato", dimostrando come essi siano stati catturati e sfruttati dal capitale, privando i produttori del controllo su di essi.

Insomma, pare che finalmente l'autore stia cercando di affrontare alcune delle lacune e delle deviazioni presenti nei movimenti antagonisti.

E, in effetti, sembra proprio che il pensiero abbia subito un indebolimento, mentre la moltitudine - concetto tanto osannato - risulta essersi accontentata senza una vera composizione di classe. Le lotte sono rimaste senza slancio, e l'inghiottimento del conflitto di classe da parte dei codici accademici ha sicuramente contribuito a questo impoverimento della prassi. Speriamo che queste critiche spietate possano portare ad una riflessione più profonda e a un potenziamento delle azioni politiche e delle lotte per un cambiamento reale e significativo.

 

La forza attuale del “populismo”, termine certamente incapace di descrivere e distinguere i diversi fenomeni politici sparsi per l’Europa, sta però nel “dare dei volti al nemico”, laddove un certo pensiero egemone dei movimenti ha completamente destrutturato e molecolarizzato i processi capitalistici senza più né volto né sede fisica, di fatto scomparsi dalla lotta politica contingente: “a un certo punto è stato spiegato che il potere non è concentrato esclusivamente in un punto, ossia nello Stato, ma è diffuso nelle relazioni sociali. Bene. Partendo dal presupposto che è dappertutto, si è arrivati alla conclusione che non ci sia più, o che non si concentri secondo una gerarchia. Male. Liquidare il problema è diventato all’interno dei movimenti un mantra: il Palazzo d’Inverno è scomparso, bisogna cambiare il mondo senza prendere il potere”. La moda anglosassone della cd “micropolitica” ha prodotto la metastasi della microcomunità autosufficiente, “che non mette in gioco i termini reali del potere, ma si accontenta di vivere praticando al proprio interno relazioni conviviali”.

 

La sfida, secondo l’autore, sta nella capacità della nuova generazione di militanti politici nel saper interpretare dialetticamente l’agire politico. Non è riscoprendo nuovi dogmatismi o rigidità strategiche slegate da prassi efficaci, che si ricostruiranno le basi di una nuova politica capace di incidere davvero nei rapporti di forza tra le classi. “Non si confronta con la contraddittorietà e la sporcizia del reale solo chi si sente debole”: il militante, forte della propria inflessibilità strategica e al contempo dalla sua estrema flessibilità tattica, è efficace solo se situato dentro le contraddizioni del reale, piegandole agli interessi della propria parte, immaginando alleanze spurie, sintesi sociali eterodosse, strade alternative a quelle libresche. Tutto al fine di tornare ad incidere davvero nella società e nei suoi rapporti di potere, in altre parole riappropriandosi di un orizzonte maggioritario, distante da settarismi, minoritarismi inconcludenti, dogmatismi o, al contrario, esaltazioni spontaneistiche e sottoculturali. Davvero rara, di questi tempi, tale generosità d’animo nel saper porre a critica il comodo esistente nel quale ci autoproduciamo, e nel voler coraggiosamente indicare una strada da perseguire che preveda la rottura con certe comodità intellettuali. Se non tutto è condivisibile, il metodo proposto è quello da seguire: aprire un dibattito e vedere cosa ne esce fuori, tornando a fare inchiesta.

Oh, ma qui sembra che l'autore ora voglia gettare un po' di luce sul "populismo", definendolo come una forza che riesce a "dare dei volti al nemico". Ma aspetta un attimo, non era l'autore stesso a criticare la semplificazione e l'uso di cliché ideologici? Sembrerebbe che ora stia facendo proprio quello che ha criticato, raggruppando tutto sotto l'ombrello del "populismo" senza distinguere le diverse sfumature politiche.

E poi c'è questa critica alla nostra cara "micropolitica" e alle microcomunità autosufficienti. Ma non era l'autore stesso a lodare il concetto di "militanza" e di "attivismo" come figure politiche distinte? Sembra che ci sia un po' di confusione qui, con l'autore che sembra ora criticare ciò che ha elogiato in precedenza.

Ma il colpo di grazia arriva con la sfida della "nuova generazione di militanti politici" a interpretare dialetticamente l'agire politico. Eppure, l'autore stesso sembrava rifiutare la rigidità strategica e il dogmatismo in favore di una maggiore flessibilità tattica. E ora sembra che stia suggerendo di abbracciare l'inflessibilità strategica insieme all'estrema flessibilità tattica.

E poi, naturalmente, c'è l'ennesimo elogio alla generosità d'animo dell'autore nel mettere a critica il comodo esistente e nel suggerire una strada da perseguire. Ma forse sarebbe interessante interrogarsi su quanto sia davvero coraggioso suggerire una strada da seguire e al contempo liquidare certi comodi intellettuali. Sembra che l'autore stia cadendo in quella stessa trappola che ha criticato in tutto il testo, ritenendo di avere tutte le risposte e di poter indicare lui stesso la strada giusta da seguire.

L'autore è sia finito in un loop di contraddizioni, dimostrando ancora una volta che la critica stessa può essere soggetta a molteplici interpretazioni e analisi. E mentre sembrava cercare di dare un senso alla militanza, alla politica e alla prassi, finisce per confondere ulteriormente le acque e lasciare i lettori con più domande che risposte. Ma, chi siamo noi per mettere in discussione questa generosità intellettuale? Forse, proprio come l'autore, stiamo cercando di aprire un dibattito e vedere cosa ne esce fuori. Ma a quanto pare, il dibattito potrebbe continuare all'infinito, come una spirale di contraddizioni e interpretazioni sfuggenti.

Mentre ci siamo addentrati nelle profondità di questo Elogio, siamo stati trattati con l'irresistibile melodramma della Militanza che cerca di conquistare il palcoscenico, ignorando cortesemente le vere sfide della prassi. E cosa dire dell'attivismo, brutalmente screditato e scaricato nel cestino delle cazzate filosofiche? Un altro atto di generosità intellettuale, davvero, da parte di chi abbraccia una visione romantica e idealistica della militanza.

Tuttavia, c'è un argento brillante in questa nebbia di retorica: la consapevolezza che, talvolta, è fondamentale leggere certe cazzate per trascendere i confini di ciò che siamo e capire cosa non siamo. Perché, come si suol dire, ogni cazzata ha la sua importanza.


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