Uno dei personaggi che ha subito maggiore revisione e revisionismo è Che Guevara. Utilizzato dalla sinistra da sempre, sdoganato dai rossobruni e dai reazionari di Casapound, Che Guevara è una figura che indubbiamente ha scosso gli animi e l'arco politico, sia per le sue azioni rivoluzionare che per l'eredità che ha lasciato.
Che Guevara è un libertario? Un anarchico? Uno del nostro "mondo"? NO, GRAZIE! Ma vale la pena analizzarlo! Che lascito ha avuto la sua figura? Perché è così importante trattarlo?
Perché, da che mondo è mondo, la sua figura ha ispirato ed ispira generazioni di rivoluzionari in giro per il mondo. Nonostante sia più un marchio di merchandising che una figura rivoluzionaria, in questo articolo vogliamo analizzare la sua vita e la sua figura, contro tutte le strumentalizzazioni e le revisioni che sono state fatte nel corso degli anni.
Personaggio controverso, molto criticato ma ancor di più amato in tutto il mondo; medico e guerrigliero, dedicò la sua vita alla causa rivoluzionaria in un momento storico fra i più interessanti e ambigui di tutti: la guerra fredda. Ernesto Guevara de la Serna, nome che per molti rappresenta un’icona, per altrettanti è stato uno spregiudicato e sanguinario rivoluzionario. Jean-Paul Sartre disse di lui dopo la morte in Bolivia: “Non era solo un intellettuale, ma era l’essere umano più completo della nostra epoca”
Ernesto Guevara nacque a Rosario, in Argentina, il 14 maggio del 1928 da una ricca famiglia borghese. Il padre, Ernesto Rafael Guevara Lynch, era un ingegnere civile; la madre era Celia de la Serna, una donna molto colta e assidua lettrice, che ebbe un ruolo determinante nella formazione politica e culturale del giovane Ernesto. Primogenito di cinque figli, trascorse la sua giovinezza in modo spensierato con i fratelli, trasferendosi più volte a causa di una forte asma contratta al secondo anno di vita che lo segnerà per tutta la vita. Fino a 17 anni visse in un paesino vicino Còrdoba, città montana dal clima secco che mitigava l’asma del giovane. Dai primi anni di vita si mostrò sempre molto energico e determinato, a scapito dei continui attacchi d’asma che lo attanagliavano.
Impossibilitato dalla malattia a frequentare con regolarità la scuola, venne istruito principalmente dalla madre che gli insegnò a leggere e a scrivere e con cui instaurò un rapporto molto stretto e sincero. Durante la giovinezza Ernesto, continuamente esposto a nuovi stimoli, fu travolto da molteplici passioni: era un grande amante degli scacchi, praticò molti sport, soprattutto rugby; insaziabile lettore, si appassionò anche alla poesia e negli anni, le armi entrarono nella sua vita: suo padre era solito portarlo a sparare nelle domeniche estive. I genitori si interessarono attivamente alla guerra civile spagnola, accogliendo in casa esuli repubblicani. Coinvolsero così il giovane, che fu attratto per la prima volta da questioni politiche.
Dopo essersi iscritto per un breve periodo alla facoltà di ingegneria, iniziò a studiare medicina all’Università di Buenos Aires. Mentre frequentava l’università, decise di intraprendere un viaggio in solitaria, spinto dalla voglia di conoscere in prima persona le zone più disagiate della sua Argentina. Modificò una bicicletta, montandoci sopra un piccolo motore e visitò il nord del paese. Tornato a Buenos Aires, alternò momenti di studio ad esperienze lavorative. Nel 1951, a seguito di un nuovo viaggio, lo spirito nomade che fin da piccolo lo contraddistingueva, lo spinse ad interrompere nuovamente gli studi per partire con il suo amico d’infanzia Alberto Granados, alla volta dell’America Latina. I due, in sella ad una moto denominata La Poderosa partirono da Alta Gracia, vicino Còrdoba, e visitarono Cile, Perù, Venezuela e Colombia. In Perù ebbe modo di vivere un’esperienza significativa al servizio di un lebbrosario dove conobbe Hugo Pesce, esperto ricercatore medico e marxista che i due amici chiamavano “maestro”.
A Caracas, ultima tappa del viaggio, Guevara si divise dal compagno per volare a Miami dove rimase per una ventina di giorni. Tutti i pensieri e tutte le vicende vissute vennero annotate in dei diari dai quali nacquero le “Notas de viaje”, un testo fondamentale noto anche come “Latinoamericana”. Non abbandonò mai l’abitudine di scrivere ed annotare; in seguito alla morte, vennero pubblicati tutti i testi frutto delle sue esperienze. Ma due, possono essere considerate le opere più iconiche e conosciute: “La guerra di guerriglia” del 1961, un manuale approfondito di tattica e strategia che venne persino studiato dalla CIA stessa per braccare Guevara in Bolivia. Il secondo è “Diario della rivoluzione Cubana” del 1963, una vasta panoramica celebrativa della rivoluzione, dal suo inizio fino alla vittoria definitiva.
Questi viaggi, colpirono profondamente il giovane Guevara: segnato dall’ingiustizia sociale, dal razzismo e dallo sfruttamento subito dalle popolazioni locali, si animò in lui un vivo interesse per le politiche sociali, mentre il suo pensiero politico si formava sotto le influenze marxiste dell’epoca, rimanendo affascinato dall’idea di una rivoluzione sociale come unico vero mezzo garante di equità e giustizia. In particolare, criticava aspramente l’imperialismo americano e lo sfruttamento che esercitava attraverso le multinazionali, come la United Fruit Company, che soggiogava praticamente tutto il continente latinoamericano.
Egli sognava una grande America meridionale unita, senza nazioni a porre confini fra i vari popoli, poiché nella sua ottica, si aveva tutti un’unica cultura condivisa da secoli. Dopo essersi laureato nel 1953, con una tesi sull’allergologia, riprese i suoi viaggi alla scoperta del continente, visitando Bolivia, Panama, Nicaragua e San Salvador: tutti paesi con un’instabilità politica più o meno forte. Nel 1954 raggiunse il Guatemala, dove il Presidente Jacopo Arbenz Guzmàn stava portando avanti una rivoluzione sociale attraverso varie riforme agrarie. Qui conobbe Hilda Gadea, sua prima moglie, che lo inserì in ambienti vicini al governo.
Ebbe modo di conoscere molti esuli cubani che parteciparono all’assalto della caserma Moncada – prima azione della rivoluzione cubana – e lo portarono a conoscenza del “Movimento 26 luglio” (data dell’assalto alla caserma). Giunse a conoscere lo stesso capo del movimento: Fidel Alejandro Castro Ruz. È in Guatemala che Guevara inizia la sua attività di rivoluzionario – senza troppa fortuna – cercando di mettere in piedi una resistenza in difesa del governo Arbenz, attaccato da un esercito sovvenzionato dalla CIA e dalla United Fruit Company. Dopo pochi giorni, il Presidente Arbenz, isolato anche dai militari, fu costretto a dimettersi e Guevara, assieme ad esuli cubani, si rifugiò nel vicino Messico.
Consolidato il rapporto con la moglie Hilda, dalla quale ebbe una figlia, lavorò per un breve periodo ad un giornale sportivo per potersi sostentare. Riavvicinatosi agli esuli cubani conosciuti in Guatemala, conobbe Raul Castro, fratello di Fidel, il quale preparò un incontro col fratello che cambierà la sorte di entrambi i protagonisti di quell’occasione. Come lo stesso Guevara dichiarò nella sua ultima lettera inviata a Castro, c’era diffidenza circa le doti di Fidel come rivoluzionario e comandante:
“Pensando alla mia vita passata credo di aver lavorato con sufficiente onorabilità e dedizione per consolidare il trionfo rivoluzionario. Il mio unico rimpianto di una certa gravità è di non aver confidato in te dai primi momenti della Sierra Maestra, e non aver compreso con sufficiente chiarezza le tue qualità di condottiero e di rivoluzionario”
Nonostante ciò, parafrasando le parole di Guevara, fra i due esisteva:
“Un legame di romantica simpatia avventurosa e la considerazione che per un ideale così puro valeva la pena di morire su una spiaggia straniera”
osì, un giovane speranzoso aderì al Movimento 26 Luglio, guidato da Fidel, che si prefiggeva il compito di liberare Cuba dalla dittatura corrotta e sanguinaria di Fulgencio Batista. Entrò a far parte del gruppo col ruolo di medico. È in questa situazione che si guadagna il soprannome “Che”, intercalare argentino, datogli dai compagni cubani che sentivano questa parola uscire da ogni frase pronunciata dal medico del gruppo. Partecipò ad un basilare addestramento militare, ma lo sbarco a Cuba venne ritardato perché poliziotti messicani, pagati da Batista, arrestarono prima Castro e, in seguito, gran parte della compagnia.
Dopo questo inconveniente, il 25 Novembre 1956 lo scafo Granma, con a bordo 82 rivoluzionari di cui alcuni fra i principali interpreti della rivoluzione, partirono per Cuba. I sette giorni di navigazione e lo sbarco furono drammatici: quasi tutti i membri soffrivano il mal di mare, vi era scarsità di viveri e appena sbarcati, individuati dall’esercito batistiano, furono costretti a scappare in mezzo ad una palude senza precisi ordini e scopi se non quello di sopravvivere per riorganizzarsi e mettersi in contatto con il resto della organizzazione. Dopo qualche giorno dallo sbarco, a causa di ingenuità dovute alla stanchezza, la compagnia subì un’imboscata ed il Che fu costretto a fare una scelta:
“Avevo davanti uno zaino pieno di medicamenti e una cassa di proiettili, pesavano troppo per trasportarli insieme: presi la cassa di proiettili. Forse quella fu la prima volta che mi si pose davanti il dilemma se dedicarmi alla medicina o al mio dovere di soldato rivoluzionario”
Solo una dozzina di soldati sopravvisse all’imboscata, il resto dell’equipaggio fu catturato e giustiziato mentre molti altri si divisero dal gruppo principale. Nonostante ciò, il gruppo raggiunse la Sierra Maestra – la principale catena montuosa cubana – dove riuscì a riassestarsi. Sulle pendici della Sierra Maestra ebbe inizio la guerra di guerriglia. I primi successi portarono morale e nuovi arruolati fra le file del movimento castrista e la rivoluzione che, col passare graduale del tempo, inglobò l’intero popolo cubano già diffidente nei confronti della dittatura batistiana.
Da ora in poi Che Guevara coprirà più il ruolo di soldato che di medico, guadagnandosi incarichi di prestigio fra le file dell’esercito rivoluzionario. Punto culminante fu il guidare la battaglia di Santa Clara, offensiva finale che portò alla vittoria l’esercito rivoluzionario il primo gennaio 1959. L’evento segnò anche la fuga di Batista, oramai isolato anche dai militari che stavano firmando una pace separata. A seguito della vittoria della rivoluzione Guevara ottenne la “cittadinanza cubana per diritto di nascita”, divorziò da Hilda Gadea, dalla quale si era separato ormai da tempo e si risposò con una rivoluzionaria cubana: Aleida March, dalla quale ebbe quattro figli.
Divenne procuratore del tribunale rivoluzionario istituito alla prigione di La Cabaña. Ricoprì svariati ruoli all’interno del governo cubano, diventando un uomo politico fra i più importanti dell’isola. Da questo momento, mise temporaneamente da parte le sue pulsioni rivoluzionarie per dedicarsi ai vari incarichi governativi. Questi, gli permisero di visitare moltissimi paesi e di sviluppare in modo più maturo la sua idea politica, fondata sull’unione dei popoli soggiogati dalla piovra imperialista. A capo di varie delegazioni economiche, viaggiò in Medio Oriente, Africa, Cina, Unione Sovietica ed Europa, incontrando esponenti politici di rilievo: Gamal Abd el-Nasser, Josip Broz Tito, Jawaharlal Nehru e Sukarno, tutti personaggi che aderiranno – insieme a Cuba – al movimento dei non allineati. Si dedicò fino al 1965 ai vari incarichi coperti all’interno di Cuba: nel 1960 venne posto a capo del primo campo di lavoro castrista istituito nell’isola di Guanahacabibes, allo scopo di punire:
“la gente che ha mancato nei confronti della morale rivoluzionaria”
Promosse un processo di alfabetizzazione, lavorò per l’Istituto Nazionale per la Riforma Agraria, ricoprì il ruolo di Presidente della Banca centrale della Repubblica di Cuba e nel 1961 divenne Ministro dell’industria e dell’Economia. Rispolverò la vecchia passione per gli scacchi, promuovendo il gioco fra i ragazzi cubani e organizzando tornei internazionali. Inoltre, fu un personaggio fondamentale per la trasformazione del processo rivoluzionario: da liberazione dalla dittatura di Batista a rivoluzione socialista. Egli fu un convinto sostenitore della teoria marxista-leninista, ammiratore di Lenin e per molti versi di Stalin ed accanito critico dell’imperialismo americano. A seguito della rivoluzione, iniziò a scostarsi dal comunismo di stampo sovietico, criticandone il conformismo ideologico, la gestione del blocco socialista e l’eccessiva burocratizzazione di questi paesi.
Nel ruolo di Ministro delle Industrie, con una lettera al Ministro della cultura cubana Armando Hart, criticò la pubblicazione di manuali sovietici per l’insegnamento della dottrina comunista, accusati di impedire lo sviluppo di un pensiero proprio, poiché il partito lo faceva al posto di ogni singolo individuo. Il distacco dall’Unione Sovietica divenne più marcato nel 1962, a seguito della crisi missilistica di Cuba: mentre l’intero pianeta trattenne il respiro per sei giorni, con il terrore che potesse scoppiare un conflitto atomico, il Che vide come un tradimento il ritiro dei missili sovietici da Cuba, che aveva fortemente voluto installare. Come affermerà in seguito nel messaggio alla Tricontinentale del 1966, egli sarebbe stato a favore di una terza guerra mondiale se questa avesse permesso ai popoli oppressi di liberarsi dal giogo statunitense:
“In definitiva, bisogna rendersi conto che l’imperialismo è un sistema mondiale, fase suprema del capitalismo, e che bisogna batterlo in un grande scontro mondiale. La finalità strategica di questa lotta deve essere la distruzione dell’imperialismo”
Aveva una visione molto cinica sulla rivoluzione socialista, e sempre in questo messaggio, afferma la necessità di creare un uomo nuovo, spietato e animato dall’odio verso l’imperialismo:
“L’odio come fattore di lotta – l’odio intransigente contro il nemico – che spinge oltre i limiti naturali dell’essere umano e lo trasforma in una reale, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere. I nostri soldati devono essere così, un popolo senza odio non può vincere un nemico brutale”
Nel 1964 ebbe modo di confrontarsi due volte con l’ONU: prima a Ginevra, per la conferenza sul commercio e lo sviluppo, dove espose una lucida denuncia – di grande modernità – del meccanismo di dominio imperialistico:
“Il Fondo monetario internazionale, l’International bank of reconstruction and development, il General agreement of tariffs and trade e, nella nostra America, il Banco interamericano de Desarollo sono esempi di organismi internazionali posti al servizio delle grandi potenze, fondamentalmente dell’imperialismo nordamericano […]. Tutti questi organismi […] in realtà non sono altro che i feticci dietro i quali si nascondono gli strumenti più sottili per la perpetuazione dell’arretratezza e dello sfruttamento”
Poi a New York in occasione dell’Assemblea generale dell’Onu, in qualità di capo della delegazione cubana. Guevara inizia il suo intervento con una panoramica mondiale su tutti i soprusi attuati dagli Stati Uniti; il discorso viene poi incentrato sulle indipendenze: attacca ancora una volta l’imperialismo americano accusato, questa volta, di aver scavalcato la sovranità dell’isola in più occasioni, cercando addirittura di ribaltare il governo con la spedizione di Playa Giron, l’arcinota invasione della baia dei Porci.
Il 24 febbraio 1965, Guevara fece quella che viene definita la sua ultima apparizione pubblica, tenendo un discorso ad Algeri innanzi al Secondo seminario economico sulla solidarietà afroasiatica. Il suo discorso è fondamentale poiché rappresenta il testamento politico del Che: esso esorta i popoli sottosviluppati ad unirsi per intraprendere una lotta dura e sanguinosa contro colonialismo, neocolonialismo ed imperialismo, che per secoli hanno impedito lo sviluppo di popoli e nazioni. Ma a suscitare scalpore fu l’invettiva ai paesi socialisti, complici di contribuire tacitamente a questo sfruttamento:
“lo sviluppo dei paesi, che iniziano il cammino verso la liberazione (dall’imperialismo) deve pesare sui paesi socialisti […] non può esistere il socialismo se nelle coscienze non si opera un cambiamento che provochi un nuovo atteggiamento fraterno di fronte all’umanità, sia di indole individuale, nella società nella quale si sta costruendo il socialismo o è stato già costruito, sia di indole mondiale, in relazione a tutti i popoli che soffrono l’oppressione imperialista. Crediamo che con questo spirito vada affrontata la responsabilità di aiuto ai paesi dipendenti e che non si deve più parlare di sviluppare un commercio di mutuo beneficio […] se stabiliamo questo tipo di relazione (mutua assistenza) fra i due gruppi di nazioni, dobbiamo convenire che i paesi socialisti sono, in una certa maniera, complici dello sfruttamento imperiale. I paesi socialisti hanno il dovere morale di liquidare la tacita complicità con i paesi sfruttatori dell’occidente. Un grande cambio di concezione consisterà nel cambiare l’ordine delle relazioni internazionali: non deve essere il commercio che stabilisce la politica, bensì, al contrario, il commercio deve essere subordinato ad una politica fraterna verso i popoli”
A marzo, di ritorno a Cuba, venne accolto con grande solennità da Fidel e Raul Castro, coi quali ebbe un lungo colloquio al quale presero parte anche alcuni comandanti della rivoluzione. Il tema della conversazione resta tutt’oggi oscuro, poiché impossibile da verificare attraverso testimonianze orali o scritte. Probabilmente venne presa la decisione di affidare al Che il comando del primo intervento militare cubano in Africa, più precisamente in Congo a sostegno dei Simba, movimento ribelle marxista. Ad ogni modo, dopo questo colloquio, si ritirò dalla vita pubblica e la sua ubicazione fu il grande mistero cubano per quasi un anno. Il 3 ottobre 1965 Fidel Castro rese pubblica una lettera inviatagli presumibilmente diversi mesi prima da Guevara. In questa lettera egli asseriva la propria volontà di lasciare l’isola per:
“Lottare contro l’imperialismo ovunque esso sia”
La missione era quella di esportare la rivoluzione partita da Cuba. Rinunciò ad ogni incarico governativo e alla cittadinanza cubana, riaffermando comunque la sua solidarietà e il suo forte attaccamento al popolo che lo accolse come uno di loro. Molti storici attribuiscono il ritiro e l’abbandono di Cuba all’insuccesso del piano di industrializzazione, altri alle divergenze con i dirigenti cubani, altri ancora attribuiscono questo ritiro alle forti pressioni provenienti dall’URSS, sempre più allarmata dalle tendenze filocinesi di Guevara, nel momento in cui le divergenze fra i due maggiori paesi socialisti si facevano più marcate. In realtà, Che Guevara non diede mai modo di far suppore le sue simpatie verso la Cina, piuttosto criticò a più riprese l’amministrazione sovietica: di fronte agli studenti universitari cubani o nei discorsi ai quadri del Ministero dell’industria; queste critiche culminarono nel già citato discorso di Algeri, dove comunque la Cina non venne esentata da critiche, essendo anch’essa una potenza socialista.
Ad ogni modo, il Congo rappresentava il paese perfetto per esportare la rivoluzione: in forte fermento sociale, erano in corso tumulti dovuti all’assassinio del Presidente filocomunista ed antimperialista Patrice Lumumba, avvenuto nel 1961. All’interno del paese si erano formati due governi contrapposti: uno, affiancato dagli USA con capitale a Léopoldville ed uno con capitale a Stanleyville, affiancato da URSS e altri paesi minori socialisti fra cui, appunto, Cuba. Che Guevara aveva avuto pochi rapporti con il continente africano, i maggiori contatti li ebbe con l’Algeria, a seguito della guerra di indipendenza terminata nel 1962, dove strinse un sincero rapporto con Ahmed Ben Bella, rivoluzionario e primo Presidente d’Algeria. L’operazione in Congo era finalizzata ad affiancare movimenti ribelli fedeli alle idee di Lumumba. I movimenti erano però fortemente separati e impregnati di settarismo, animismo e sciamanesimo.
Le truppe autoctone erano solite usare una pozione magica prodotta dagli stregoni locali, che li avrebbe dovuti proteggere dalle pallottole del nemico. Erano presenti anche fazioni ruandesi che volevano esportare la rivoluzione nel loro paese; dopo pochi mesi abbandonarono la guerriglia a causa della scarsa volontà combattiva dei congolesi, affermando che se dovevano morire in questo modo, sarebbe stato meglio farlo nella propria terra. Le differenze culturali e i rapporti di forza all’interno dei movimenti furono fatali per la spedizione. L’addestramento si rivelò poco efficace e la trasmissione di malattie veneree attanagliò tutte le truppe non congolesi. A seguito dell’eccessivo immobilismo e di svariati fallimenti militari, Guevara insieme al contingente cubano, fu costretto ad abbandonare la guerriglia. Siamo nel novembre 1965; egli descrisse il ritiro come uno spettacolo doloroso, lamentevole, bruciante e senza gloria.
I successivi mesi vennero trascorsi dal Che a Dar es Salaam, a Praga e nella Repubblica Democratica Tedesca. In questo lasso di tempo, rifletterà sul fallito tentativo rivoluzionario in Congo, ammettendo i suoi errori incentrati sulla volontà di voler traslare le modalità della guerriglia sulla Sierra Maestra in Congo. Che Guevara rimase profondamente deluso del proprio fallimento e dopo un breve periodo trascorso in incognita a Cuba, raggiunse la Bolivia con passaporto falso nel novembre 1966. Il partito comunista boliviano comprò un pezzo di terra nella regione del fiume Nancahuazù, nel sud-est del paese, per poter addestrare gli uomini alla guerriglia e dove installare il campo base dei rivoluzionari. Il gruppo era composto da una cinquantina di persone tra cubani, peruviani e boliviani che però, non conoscevano la regione. I guerriglieri dovettero subito far fronte alle condizioni non favorevoli della foresta boliviana e all’indifferenza, nei migliori dei casi, dei contadini boliviani avversi agli stranieri.
La regione prescelta era poco abitata e questo impossibilitava ogni sostegno popolare. Tuttavia, il morale delle truppe era alto. Anche la differenza di supporto logistico e strumentale con il Congo, era notevole: nel paese africano i contatti fra Cuba ed il contingente cubano non cessarono mai grazie alle radiotrasmittenti; la Tanzania, paese alleato a Cuba, permetteva il passaggio d’armi ed era facilmente raggiungibile. In Bolivia la situazione era ben diversa: le radio trasmittenti erano difettose e smisero di funzionare dopo due mesi, il partito comunista boliviano, dopo l’iniziale aiuto concesso ai rivoluzionari, voltò le spalle a Guevara e compagni, espellendo i militanti che avevano preso parte o aiutato la guerriglia e condannò l’Esercito di Liberazione Nazionale di Bolivia.
Uno scatto di Guevara con l’inconfondibile havana fra le dita
Nel marzo 1967, avvennero i primi scontri con l’esercito governativo: il risultato fu favorevole ai guerriglieri, i quali tuttavia furono costretti ad abbandonare il campo base, ove vennero trovate delle foto che ritraevano, fra gli altri, Che Guevara. Quando il Presidente René Barrientos – democraticamente eletto – venne a conoscenza della presenza del rivoluzionario argentino, intensificò la lotta alla guerriglia. Dopo il primo scontro, si unirono al gruppo due internazionalisti: il francese Regis Debray e l’argentino Ciro Bustos; invece di migliorare la situazione la complicarono: vennero arrestati dall’esercito governativo e confermarono l’effettiva presenza di Che Guevara. Da quel momento il governo statunitense iniziò ad inviare personale della CIA ed uno speciale contingente Rangers, esperti nel combattimento nelle giungle tropicali e idonee all’addestramento degli inesperti soldati dell’esercito governativo.
Guevara insieme ad alcuni guerriglieri durante l’avventura in Bolivia
Ad aprile, scontri con l’esercito regolare causarono dei feriti fra le fila dei ribelli e il gruppo si divise in due colonne che non si sarebbero più rincontrate per la mancanza di radio trasmittenti, pur giungendo a distanze molto ravvicinate. A giugno, gli operai delle miniere dichiararono i distretti minerari “territorio libero” e di voler sostenere la guerriglia. Sembrò la scintilla che avrebbe fatto accendere il braciere rivoluzionario, ma il 24 giugno si consumò il massacro di San Juan: decine di minatori vennero uccisi e circa duecento furono deportati in campi di lavoro. A luglio, nuovi scontri costrinsero l’esercito ribelle ad una fuga tempestiva, nel corso della quale vennero persi vari zaini, fra cui quello con le medicine del Che. Le condizioni dei guerriglieri erano sempre peggiori, l’asma di Guevara lo costringeva a duri sforzi. Il 26 settembre a La Higuera, l’esercito ribelle subì ulteriori perdite; la situazione era drammatica, molti erano i feriti e si scelse una via di fuga percorribile da tutti, ma più esposta. I guerriglieri vennero avvistati: nell’ultima battaglia, Che Guevara venne ferito e disarmato con un colpo che mise fuori uso la sua arma: era la fine dell’avventura boliviana.
Dettaglio di una foto ritraente il corpo esanime di Ernesto Guevara
Guevara si arrese, venne catturato dall’esercito e rinchiuso in una scuola. Il governo boliviano lo avrebbe voluto morto e Barrientos, annunciò pubblicamente la sua morte, affermando che era avvenuta durante gli scontri. L’agente della CIA Félix Rodriguez, che conduceva le operazioni, aspettava la decisione del governo statunitense in merito alla sorte del Che.La risposta non tardò ad arrivare. Se ne decretò l’esecuzione capitale, che avvenne il 9 ottobre 1967. Il corpo fu trasferito a Vallegrande, dove fu esposto a fotografi e giornalisti come un macabro trofeo. Successivamente, gli vennero mozzate le mani da un medico militare per verificarne l’effettiva identità. Al fratello, che chiedeva la restituzione della salma alla famiglia, fu impedito di vedere il corpo, che venne poi gettato in una fossa comune sempre a Vallegrande, nei pressi dell’aeroporto militare. I resti di Guevara, vennero ritrovati soltanto nel 1997. Furono poi trasportati a Cuba e successivamente tumulati nel grande mausoleo ancora oggi visibile a Santa Clara.
Il grande complesso funerario di Santa Clara, con la statua di Che Guevara che svetta al centro.
La morte di Guevara coincise con il tramonto delle speranze che avvolgevano la fine degli anni Sessanta: speranze di cambiamento, pace, equità e giustizia sociale. Le idee espresse nei suoi discorsi sono tutt’altro che passate; le critiche nei confronti di un sistema di sottomissione dei popoli sono ora più attuali che mai, con la differenza che, ora più di prima, questo sistema agisce in modo subdolo e nascosto, ma pur sempre con gli stessi attori. A noi rimane il mito di un uomo che ha dato la vita per gli ideali in cui credeva e la speranza che un giorno le battaglie portate avanti dal Che, non debbano più essere combattute. Le frasi della celebre canzone Stagioni di Francesco Guccini, racchiudono il sentimento che a molti suscitò la morte dell’indimenticabile rivoluzionario.
“Ci prese come un pugno, ci gelò di sconforto,
sapere a brutto grugno che Guevara era morto:
in quel giorno d’ottobre, in terra boliviana
era tradito e perso Ernesto “Che” Guevara…
Si offuscarono i libri, si rabbuiò la stanza,
perché con lui era morta una nostra speranza:
erano gli anni fatati di miti cantati e di contestazioni,
erano i giorni passati a discutere e a tessere le belle illusioni…
“Che” Guevara era morto, ma ognuno lo credeva
che con noi il suo pensiero nel mondo rimaneva…”
Che Guevara, sicuramente non è un anarchico, ma sicuramente è un rivoluzionario, sebbene tantissimi punti in comune possiamo celebrarlo per quello che è un comunista che ha creduto fino in fondo nella sua visione del mondo, da ispirazione per chiunque voglia combattere la propria battaglia.