Bakunin tira fuori le sue armi migliori, finalmente, per attaccare Marx e il gruppo di potere che si era insediato nell’Internazionale. In queste pagine è finito il tempo delle illusioni e delle collaborazioni, le critiche sono chiare e dirette.

Una volta aveva detto che bisognava separare le grandi capacità analitiche di Marx, la sua preparazione filosofica ed economica, la quale poteva essere utilizzata anche dagli anarchici (invero in questo campo endemicamente carenti) e per il resto lo si poteva mettere tra parentesi. Adesso affronta le trame intestine, le calunnie, le chiacchiere di corridoio, i soppesamenti dietro le quinte, le correnti di potere, le meschinerie personali, e tutto quel bagaglio che in una parola si potrebbe definire come “politica”.

Semplicemente politica, l’arte di far fare agli altri quello che questi non vogliono fare. E così scopriamo che Marx, prima ancora di essere filosofo ed economista (la grandezza in questi campi è faccenda opinabile), è un politico, un piccolo uomo, un Talleyrand in sedicesimo, rinchiuso nella cucina di casa sua a rimestare le sue carte sul suo sudicio tavolo, sognando di governare il mondo.

Ecco, che l’ombra delle mie antiche, fruttuose, letture del marchese Pareto, feroce reazionario, venga qua beneficata di un doveroso ricordo. Marx era proprio questo, e i suoi seguaci moderni e, insisto nel precisare, modernissimi (si fa per dire), lo sono altrettanto. Che il coraggio di Bakunin, finalmente da lui preso a due mani, ci serva da utile strumento per saperci comportare di fronte a tanti fracassoni odierni che del loro antico predecessore non hanno in mano che la bieca ottusità politica.

“L’uomo non è a tutte le ore ugualmente morale, questo si sa, se si giudica la sua moralità dalla capacità di sacrificio di sé e di risoluzioni grandi e altruistiche, cosa che, se costante e abituale, costituisce la santità, egli è sommamente morale nell’affetto, la più intensa emozione gli arreca motivi affatto nuovi, dei quali, se calmo e distaccato come al solito, egli forse nemmeno si crederebbe capace. Come accade ciò? Probabilmente per la vicinanza di tutto quanto è grande ed eccitante, se l’uomo è portato a una tensione eccezionale, può decidersi sia per una terribile vendetta sia per una rottura terribile del suo bisogno di vendetta. Sotto l’effetto di una potente emozione, egli vuole in ogni caso il grande, il violento, l’immenso, e se per caso nota che il sacrificio di sé lo soddisfa altrettanto, o ancora più, del sacrificio dell’altro, egli sceglie quello. In effetti, dunque, gli preme soltanto scaricare la sua emozione, allora, per alleviare la sua tensione, egli può bene afferrare le lance dei suoi nemici e affondarsele in petto. Che nel rinnegare se stessi, e non soltanto nel vendicarsi, ci sia qualcosa di grande, poté essere instillato nell’umanità solo da una lunga consuetudine, una divinità che sacrifica se stessa fu il simbolo più evidente ed efficace di questo tipo di grandezza. Come vittoria sul nemico più difficile a vincersi, come subitaneo dominio di un affetto, tale appare questo rinnegamento, e, in tale senso, esso è considerato anche il culmine della moralità”.

— Friedrich Nietzsche

Scritto di Bakunin contro Marx

Essendo solidale lo sfruttamento borghese, deve esserlo altrettanto la lotta contro di esso; e l’organizzazione di questa solidarietà militante tra i lavoratori del mondo intero, è il fine unico dell’Internazionale. Questo fine, così semplice e così ben espresso dai nostri statuti generali originari [Per “statuti generali e primitivi” Bakunin intende gli statuti adottati al primo Congresso dell’A.I.T., Ginevra 1866], i soli legittimi ed i soli obbligatori per tutti i membri, sezioni e federazioni dell’Internazionale, ha riunito sotto l’insegna di questa Associazione, nello spazio di otto anni appena, ben più di un milione di aderenti, e ne ha fatto una reale potenza; una potenza della quale i monarchi più potenti della terra si vedono oggi costretti a tenere conto.

Ma ogni potenza attira gli ambiziosi, e i sigg. Marx e compagni che, forse, non si sono mai resi conto della natura e delle cause di questa potenza così giovane e insieme così prodigiosa dell’Internazionale, si sono immaginati che avrebbero potuto servirsene da trampolino o come uno strumento per la realizzazione delle loro pretese politiche. Il sig. Marx, che è stato uno dei fondatori principali dell’Internazionale, – ecco un attestato di gloria che nessuno gli contesterà – e che, per otto anni di seguito, ha costituito quasi da solo tutto il Consiglio generale, avrebbe dovuto comprendere tuttavia, meglio di chiunque, due cose che saltano agli occhi, e che solo l’accecamento inerente all’ambizione vanitosa ha potuto fargli disconoscere:

  1. che l’Internazionale non ha potuto svilupparsi ed estendersi in una maniera così meravigliosa perché ha eliminato dal suo programma ufficiale ed obbligatorio tutte le questioni politiche e filosofiche; e
  2. che essa non ha potuto farlo perché, fondata principalmente sulla libertà delle sezioni e delle federazioni, era stata privata di tutti i vantaggi di un governo centralizzatore, capace di dirigere, cioè, d’impedire e di paralizzare, il suo sviluppo; non essendo stato, fino al 1870, precisamente nel periodo del più grande sviluppo dell’Associazione il Consiglio generale che una specie di re d’Yvetot, che ragiona sempre a cose fatte, e lasciandosi, non per mancanza di pretese ambiziose, ma per impotenza e perché nessuno lo avrebbe ascoltato, trascinare a rimorchio del movimento spontaneo dei lavoratori del Belgio, della Francia, della Svizzera, della Spagna e dell’Italia.

In quanto alla questione politica, tutti sanno che, se essa è stata eliminata dal programma dell’Internazionale, non è certo per colpa del sig. Marx. Come ci si doveva attendere da parte dell’autore del famoso programma dei comunisti tedeschi, pubblicato nel 1848 da lui e dal suo amico, confidente e complice, il sig. Engels, non ha affatto mancato di porre questa questione al primo posto nel proclama inaugurale pubblicato nel 1864 dal Consiglio generale provvisorio di Londra, proclama di cui Marx è stato l’unico autore.

In questo proclama o circolare indirizzata ai lavoratori di tutti i paesi, il capo dei comunisti autoritari della Germania non si è affatto fatto scrupolo di dichiarare che la conquista del potere politico era il primo dovere dei lavoratori; ha svelato anche la sua natura pangermanista, aggiungendo che attualmente lo scopo politico principale dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori doveva essere quello di combattere l’Impero di tutte le Russie, scopo senza dubbio molto legittimo e molto nobile, il quale, come amico del popolo russo, sottoscrivo di tutto cuore, persuaso come sono che questo popolo non cesserà d’essere uno schiavo miserabile finché questo Impero esisterà, – ma che, per prima cosa, non potrebbe divenire, senza snaturarne completamente il carattere e l’oggetto, quello dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori; e che, in secondo luogo, per essere posto in un modo veramente giusto, serio ed utile per la causa dei Lavoratori, dovrebbe essere determinato in un altro modo.

Se il sig. Marx avesse dichiarato guerra a tutti gli Stati, o almeno agli Stati monarchici, dispotici, militari come la Prussia, come l’Austria, come la Francia imperiale o anche repubblicana attuale, e se avesse detto che occorreva mettere al primo posto fra questi lo Stato modello, l’Impero di tutte le Russie, almeno non lo si sarebbe potuto accusare di pangermanesimo. Ma facendo astrazione del dispotismo tedesco, un dispotismo molto insolente, molto brutale, molto ingordo, ed eccessivamente minaccioso per la libertà dei popoli vicini, come tutti possono vederlo oggi, e sforzandosi di rivolgere l’indignazione dei lavoratori di tutti i paesi contro il dispotismo russo, escludendo tutti gli altri, pretendendo pure che esso era la sola causa di quello che non ha mai cessato di regnare in Germania, da quando vi è una Germania; rigettando infine tutte le onte e tutti i crimini politici di questo paese dalla scienza e dall’obbedienza proverbiali sulle ispirazioni della diplomazia russa, il sig. Marx si è manifestato prima come un cattivo e poco veridico storico, e poi non come un rivoluzionario socialista internazionale, ma come un ardente patriota della grande patria bismarckiana.

È risaputo che il primo Congresso dell’Internazionale, tenutosi a Ginevra nel 1866, ha fatto giustizia di tutte queste velleità politiche e patriottiche di colui che si pone oggi da dittatore della nostra grande Associazione. Non ne è restato nulla nel programma né negli statuti votati da questo Congresso e che costituiscono ormai la base dell’Internazionale. Datevi la pena di rileggere i magnifici considerando che si trovano in testa dei nostri statuti generali, non vi troverete che queste parole in cui sia fatta menzione della questione politica:

“Considerando:

  • che l’emancipazione dei lavoratori deve essere l’opera dei lavoratori stessi; che gli sforzi dei lavoratori per conquistare la loro emancipazione non devono tendere a costituire nuovi privilegi, ma a stabilire per tutti gli stessi diritti e gli stessi doveri;
  • che l’asservimento del lavoratore al capitale è l’origine di ogni servitù politica, morale e materiale;
  • che, per questa ragione, l’emancipazione economica dei lavoratori è il grande fine al quale deve essere subordinato ogni movimento politico, ecc."

Ecco la frase decisiva di tutto il programma dell’Internazionale. Essa ha tagliato il cavo, per servirmi della memorabile espressione di Sieyès, ha spezzato i legami che tenevano incatenato il proletariato alla politica borghese. Riconoscendo la verità che essa esprime e convincendosene ogni giorno di più, il proletariato ha risolutamente girato le spalle alla borghesia, ed ogni passo che farà in avanti allargherà di più l’abisso che ormai li separa.

L’Alleanza, sezione dell’Internazionale a Ginevra, aveva tradotto e commentato questo paragrafo dei considerando in questi termini:

“L’Alleanza respinge ogni azione politica che avrà come scopo immediato e diretto il trionfo dei lavoratori contro il capitale”; in conseguenza di ciò, essa si pone per scopo l’abolizione dello Stato, di tutti gli Stati, e l’organizzazione de “l’associazione universale di tutte le associazioni locali mediante la libertà”.

Di contro, il Partito della democrazia socialista degli operai tedeschi, fondato nello stesso anno (1869), sotto gli auspici dei sig. Marx, dai sigg. Liebknecht e Bebel, annunciava nel suo programma che la conquista del potere politico era la condizione preliminare dell’emancipazione economica del proletariato, e che, di conseguenza, l’obiettivo immediato di questo partito doveva essere l’organizzazione di una larga agitazione legale per la conquista del suffragio universale e di tutti gli altri diritti politici; il suo scopo finale è la costituzione di un grande Stato pangermanico e sedicente popolare.

Tra queste due tendenze, lo si vede, esiste la stessa differenza, lo stesso abisso, che [esiste] tra il proletariato e la borghesia. C’è forse da stupirsene dopo ciò che esse si siano misurate nell’Internazionale come degli avversari irriconciliabili, e che esse continuino a combattersi, sotto tutte le forme e in tutte le occasioni possibili, ancora oggi? L’Alleanza, prendendo sul serio il programma dell’Internazionale, aveva respinto con sdegno ogni patteggiamento con la politica borghese, per quanto radicale si dica e per quanto da socialista essa si trucchi, raccomandando al proletariato come la sola via dell’emancipazione reale, come la sola politica per lui veramente salutare, la politica esclusivamente negativa della distruzione delle istituzioni politiche, del potere politico, del governo in generale, dello Stato, e, come necessaria conseguenza, l’organizzazione internazionale delle forze sparse del proletariato in una potenza rivoluzionaria diretta contro tutte le potenze costituite della borghesia.

I democratici socialisti della Germania raccomandano, interamente al contrario, ai lavoratori che hanno la disgrazia di ascoltarli, di adottare, come scopo immediato della loro associazione, l’agitazione legale per la conquista preliminare dei diritti politici; essi subordinano, con ciò, il movimento per l’emancipazione economica al movimento innanzitutto esclusivamente politico, e, tramite questo ostensibile rovesciamento di tutto il programma dell’Internazionale, hanno colmato in un sol colpo l’abisso che essa aveva aperto tra il proletariato e la borghesia. Essi hanno fatto più di questo, hanno attaccato il proletariato a rimorchio della borghesia. Perché è evidente che tutto questo movimento politico esaltato dai socialisti della Germania, poiché deve precorrere la rivoluzione economica, non potrà essere diretto che da dei borghesi, o, ciò che sarà ancora peggio, da degli operai trasformati per la loro ambizione, o per la loro vanità in borghesi; e passando, in realtà, e come tutti i suoi predecessori, sopra la testa del proletariato, questo movimento non potrà evitare di condannare nuovamente quest’ultimo a non essere che uno strumento cieco e infallibilmente sacrificato nella lotta dei diversi partiti borghesi fra loro per la conquista del potere politico, cioè della potenza e del diritto di dominare sulle masse e di sfruttarle. A chiunque potrebbe dubitarne, noi non dovremmo che mostrare ciò che succede oggi in Germania, dove gli organi della democrazia socialista cantano inni di allegria vedendo un Congresso di professori d’economia politica borghese raccomandare al proletariato della Germania l’alta e paterna protezione degli Stati, e nelle parti della Svizzera in cui prevale il programma marxiano, a Ginevra, a Zurigo e a Basilea, dove l’Internazionale è decaduta al punto di non essere altro che una specie di urna elettorale a profitto dei borghesi radicali. Questi fatti incontestabili mi sembrano più eloquenti di ogni parola.

Essi sono reali, e sono logici nel senso che sono un effetto naturale del trionfo della propaganda marxiana. Ed è per questo che noi combattiamo le teorie marxiane ad oltranza, convinti che se esse avessero trionfato in tutta l’Internazionale, non avrebbero mancato di ucciderne almeno lo spirito ovunque, come hanno già fatto in grandissima parte in quei paesi che ho appena citato.

Noi abbiamo senza dubbio deplorato molto e continuiamo a deplorare profondamente oggi l’immenso scompiglio e demoralizzazione che queste idee pangermaniche hanno gettato nello sviluppo così bello, così meraviglioso e così naturalmente trionfante dell’Internazionale. Ma nessuno di noi ha mai pensato d’interdire a Marx, né ai suoi troppo fanatici discepoli, di propagarle in seno della nostra grande Associazione. Avremmo creduto di venir meno al suo principio fondamentale, che è quello della libertà più assoluta della propaganda sia politica che filosofica.

L’Internazionale non ammette censure, né verità ufficiali in nome delle quali si potrebbe esercitare questa censura; essa non le ammette, perché mai fino ad ora si era posta né come Chiesa, né come Stato, ed è precisamente perché non l’ha fatto che ha potuto sbalordire il mondo per l’incredibile rapidità della sua estensione e del suo sviluppo.

Ecco ciò che il Congresso di Ginevra, ispirato meglio che il sig. Marx, aveva capito. Eliminando dal suo programma tutti i princìpi politici e filosofici, non come oggetti di discussione e di studio, ma in quanto princìpi obbligatori, ha fondato la potenza della nostra Associazione.

È vero che nel secondo Congresso dell’Internazionale, tenutosi nel 1867 a Losanna, degli amici sventurati, non degli avversari, non rendendosi ancora ben conto della vera natura della potenza di questa Associazione, avevano provato a rimettere sul tappeto la questione politica. Ma molto fortunatamente essi non giunsero che a questa dichiarazione platonica, che la questione politica era inseparabile dalla questione economica – una dichiarazione che ognuno di noi può sottoscrivere, perché è evidente che la politica, cioè l’istituzione ed i mutui rapporti degli Stati, non ha altro scopo che di assicurare alle classi governanti lo sfruttamento legale del proletariato, da cui risulta che dal momento che il proletariato vuole emanciparsi, è costretto a prendere in considerazione la politica, per combatterla e per rovesciarla. Non è così che l’intendono i nostri avversari; ciò che hanno voluto e ciò che vogliono, è la politica positiva, la politica dello Stato. Ma non avendo trovato il terreno favorevole a Losanna, essi vi si erano saggiamente astenuti.

La stessa saggezza li aveva ispirati un anno più tardi al Congresso di Bruxelles. D’altronde il Belgio, comunalista, anti-autoritario e anticentralista per tutta la sua storia, non offriva loro nessuna probabilità di successo e, ancora una volta, si sono saggiamente astenuti.

Tre anni di sconfitta! Fin troppo per l’ambizione impaziente del sig. Marx. Così ordinò al suo esercito un attacco diretto, che in effetti fu eseguito al Congresso di Basilea (1869). Le probabilità gli sembravano favorevoli. Il Partito della democrazia socialista aveva avuto il tempo di organizzarsi in Germania sotto la direzione dei sigg. Liebknecht e Bebel, e aveva esteso le sue ramificazioni nella Svizzera tedesca, a Zurigo, a Basilea, e anche fino nella Sezione tedesca di Ginevra. Era per la prima volta che dei delegati della Germania si presentavano in un numero molto grande in un Congresso dell’Internazionale. Il piano di battaglia, approvato dal sig. Marx, il generale in capo dell’esercito, era stato combinato fra il sig. Liebknecht, capo del corpo tedesco, e i sigg. [Karl] Bürkli e [Herman] Greulich, comandanti del corpo svizzero; i sigg. Amand Goegg, Philippe Becker e [M.] Rittinghausen – l’inventore della votazione diretta delle leggi e delle costituzioni da parte del popolo, il plebiscitario tedesco –, si disposero da parte loro come degli ausiliari volontari. La Lega borghese della Pace e della Libertà, rappresentata da quel brillante campione della democrazia borghese, e il comunismo autoritario del sig. Marx si erano dati la mano e si erano fraternamente abbracciati sul terreno politico, come del resto bisognava attendersi. In più ebbero dalla loro parte alcuni tedeschi del Consiglio generale, infeudati alla politica del sig. Marx, e alcuni inglesi dello stesso Consiglio che ignoravano completamente la questione, ma che votarono con i marxiani come conseguenza di una cattiva abitudine di cui sembrano essersi completamente disfatti oggi.

Così organizzati, i marxiani impegnarono la grande battaglia e la persero. La questione della legislazione diretta da parte del popolo, posta dal sig. Bürkli, difesa con molto calore e molta insolenza contro di noi dal sig. Liebknecht, con molta reticenza diplomatica dal sig. Philippe Becker, che non ama mai pronunciarsi chiaramente prima di sapere da quale lato sta la vittoria, e con un’enfasi eroica dal sig. Amand Goegg, fu affossata e eliminata di fatto dal programma del Congresso. Fu una sconfitta memorabile per il sig. Marx, una sconfitta che non ci perdonerà mai.

La sua collera fu molto grande, e se ne conoscono tutte le conseguenze oggi. Fu dopo il settembre del 1869 che il Consiglio generele – o piuttosto il sig. Marx, quos ego di quel povero Consiglio –, uscendo dal suo torpore obbligato e così salutare per l’Internazionale, intraprese una politica militante. Si sa come essa si manifestò all’inizio. Fu un torrente d’ingiurie ignobili e di odiose calunnie versate contro tutti coloro che avevano osato combatterlo, e diffuse tramite i giornali in Germania, e negli altri paesi con delle lettere intime, con delle circolari confidenziali e con ogni sorta di agenti guadagnati in un modo o nell’altro alla causa del sig. Marx. Venne poi la Conferenza di Londra (1871), che, preparata da molto tempo dal sig. Marx, votò tutto ciò che egli volle: e la questione politica, la conquista del potere da parte del proletariato come parte integrante del programma obbligatorio dell’Internazionale, e la dittatura del Consiglio generale, cioè quella del sig. Marx in persona, e di conseguenza la trasformazione dell’Internazionale in un immenso e mostruoso Stato, di cui egli divenne il capo.

Essendo stata contestata la legittimità di questa Conferenza, il sig. Marx, prestigiatore politico molto abile, che era senza dubbio ansioso di dimostrare al mondo che, in mancanza di fucili e di cannoni, si potevano governare le masse con la menzogna, con la calunnia, con l’intrigo, organizzò il suo Congresso dell’Aia. Sono trascorsi appena due mesi da questo Congresso, e in tutta l’Europa – tranne la Germania di cui gli operai sono sistematicamente accecati dai loro capi, e dai loro giornali, di cui i redattori sono interessati alla menzogna – in tutte le Federazioni libere, belga, olandese, inglese, americana, francese, spagnola, italiana senza dimenticare la nostra eccellente Federazione del Giura, non vi è che un grido d’indignazione e di disprezzo contro questa cinica commedia a cui si è osato affibbiare il nome di un Congresso dell’Internazionale. Grazie ad una maggioranza fittizia, composta quasi esclusivamente da membri del Consiglio generale, da Tedeschi disciplinati alla prussiana, e da blanquisti francesi ridicolmente giocati dal sig. Marx, qui tutto è stato travestito, falsificato, brutalizzato e violato: giustizia, buonsenso, onestà. Vi si è immolato senza vergogna, senza pietà, l’onore dell’Internazionale, si è messo in gioco la sua stessa esistenza, al fine di meglio assicurare senza dubbio la potenza dittatoriale del sig. Marx. Non era soltanto un crimine, era una demenza. E il sig. Marx, che egli stesso si considera il padre dell’Internazionale e che è stato incontestabilmente uno dei suoi principali fondatori, ha lasciato fare tutto ciò! Ecco dove conducono la vanità personale, l’adorazione di se stessi e, soprattutto, l’ambizione politica. Per tutti questi fatti e questi atti deplorevoli di cui egli è stato la grande fonte e l’unico autore, il sig. Marx ha almeno reso un grande servizio all’Internazionale, dimostrando ad essa in una maniera interamente drammatica, del tutto viva, che se qualche cosa può ucciderla, è l’introduzione della politica nel suo programma.

L’Associazione Internazionale dei Lavoratori, ho detto, ha potuto prendere un’estensione immensa solo perché ha eliminato dal suo programma obbligatorio tutte le questioni politiche e filosofiche. La cosa è talmente chiara che si è veramente stupiti di doverla ancora dimostrare.

Io non credo di avere bisogno di dimostrare che affinché l’Internazionale sia e resti una potenza, essa deve essere capace di trascinare nel suo seno e di abbracciare e di organizzare l’immensa maggioranza del proletariato di tutti i paesi dell’Europa e dell’America. Ma qual è il programma politico filosofico che potrebbe illudersi di riunire sotto la sua insegna dei milioni? Solo un programma eccessivamente generale, cioè indeterminato e vago, può farlo, perché ogni determinazione in teoria corrisponde fatalmente ad una esclusione, ad una eliminazione nella pratica.

Non ci può più essere, per esempio, oggi della filosofia seria che non prenda come punto di partenza, non positivo ma negativo (storicamente diventato necessario, come negazione delle assurdità teologiche e metafisiche), l’ateismo. Ma si crede forse che se si fosse scritto questa semplice parola, “l’ateismo”, sulla bandiera dell’Internazionale, questa associazione avrebbe potuto riunire nel suo seno non meno di qualche centinaio di migliaia di aderenti? E ciò, come tutti sanno, non perché il popolo sia realmente religioso, ma perché crede di esserlo finché una buona rivoluzione sociale non gli avrà dato i mezzi di realizzare tutte le sue aspirazioni qui in basso. È certo che, se l’Internazionale avesse messo l’ateismo, come un principio obbligatorio, nel suo programma, essa avrebbe escluso dal suo seno il fiore del proletariato – e con questa parola io non intendo, come fanno i marxiani, lo strato superiore, il più civile e il più agiato del mondo operaio, quello strato di operai quasi borghesi di cui vogliono precisamente servirsi per costituire la loro quarta classe governativa, e che è veramente capace di formarne una, se non vi si mette ordine nell’interesse della grande massa del proletariato, perché, col suo benessere relativo e quasi-borghese, essa si è, per disgrazia, troppo profondamente imbevuta di tutti i pregiudizi politici e sociali e delle grette aspirazioni e pretese dei borghesi. Si può dire che questo strato è il meno socialista, il più individualista in tutto il proletariato.

Per fiore del proletariato, intendo soprattutto quella grande massa, quei milioni di non civilizzati, di diseredati, di miserabili e di analfabeti che il sig. Engels e il sig. Marx pretendono di sottomettere al regime paterno di un governo molto forte (sono gli stessi termini di cui il sig. Engels si è servito in una lettera molto istruttiva che ha indirizzato al nostro amico Cafiero), senza dubbio per la loro stessa salvezza, siccome tutti i governi sono stati costituiti, si sa, soltanto nell’interesse proprio delle masse. Per fiore del proletariato, intendo precisamente quella carne da eterno governo, quella grande canaglia popolare (i sigg. Marx ed Engels la chiamano ordinariamente con questa parola insieme pittoresca e sprezzante, Lumpen-Proletariat, il “proletariato straccione”, i pezzenti) che, essendo quasi vergine da ogni civiltà borghese, porta nel suo seno, nelle sue passioni, nei suoi istinti, nelle sue aspirazioni, in tutte le necessità e nelle miserie della sua posizione collettiva, tutti i germi del socialismo dell’avvenire, e che sola oggi è abbastanza potente per inaugurare e per fare trionfare la rivoluzione sociale.

Ebbene, in quasi tutti i paesi, questa canaglia, in quanto massa, avrebbe rifiutato di aderire all’Internazionale se si fosse scritto sulla sua bandiera, come parola ufficiale, questa parola ateismo. E ciò sarebbe un grande danno, perché, se essa voltasse la schiena all’Internazionale, sarebbe finita tutta la potenza della nostra grande Associazione.

La stessa cosa vale assolutamente per tutti i princìpi politici. Primo, non ve ne è più uno solo – e i sigg. Marx ed Engels avranno un bel darsi da fare, essi non cambieranno questo fatto divenuto oggi lampante in tutti i paesi –, non esiste più alcun principio politico, dico, che sia capace di smuovere le masse. Essi falliranno, dopo un’esperienza di qualche anno, anche in Germania. Ciò che le masse vogliono ovunque, è la loro emancipazione economica immediata, perché è là che realmente è per esse tutta la questione della libertà, dell’umanità, della vita o della morte. Se vi è ancora un ideale che le masse oggi sono capaci di adorare con passione, è quello dell’uguaglianza economica. E le masse hanno mille volte ragione, perché finché l’uguaglianza economica non avrà affatto sostituito il regime attuale, tutto il resto, tutto ciò che costituisce il valore e la dignità dell’esistenza umana, la libertà, la scienza, l’amore, l’azione intelligente e la solidarietà fraterna, resterà per esse allo stato di orribile menzogna.

La passione istintiva delle masse per l’uguaglianza economica è così grande che, se esse avessero potuto sperare di riceverla dalle mani del dispotismo, si sarebbero indubbiamente e senza molta riflessione, come hanno fatto spesso, consegnate al dispotismo. Fortunatamente, l’esperienza storica è servita a qualche cosa anche alle masse. Oggi esse incominciano a comprendere ovunque che nessun dispotismo ha, né può avere, né la volontà né il potere di darla a loro. Il programma dell’Internazionale è, molto fortunatamente, esplicito sotto questo aspetto: L’emancipazione dei lavoratori non può essere opera che dei lavoratori stessi.

Non è forse sorprendente che il sig. Marx abbia creduto di potere innestare su questa dichiarazione, pertanto così precisa, così chiara, e che ha probabilmente redatta lui stesso, il suo socialismo scientifico, cioè l’organizzazione e il governo della nuova società da parte dei socialisti sapienti – il peggiore di tutti i governi dispotici!

Grazie a questa cara, grande canaglia popolare che si opporrà da sola, spinta da un istinto così invincibile quanto giusto, a tutte le velleità governative della piccola minoranza operaia già disciplinata e classificata come si deve per divenire il fautore di un nuovo dispotismo, il socialismo sapiente del sig. Marx resterà sempre allo stato di sogno marxiano. Questa nuova esperienza, forse più triste di tutte le esperienze passate, sarà risparmiata alla società, perché il proletariato in generale e in tutti i paesi oggi è animato da una diffidenza profonda verso ciò che è politico e verso tutti i politici del mondo, qualsiasi sia il loro colore, avendolo tutti ugualmente ingannato, oppresso, sfruttato, i repubblicani più rossi così come i monarchici più assoluti.

Con simili stati d’animo realmente esistenti nelle masse, come sperare di poterle attirare con un qualsiasi programma politico? E supponiamo, il qual caso è oggi in effetti, che esse si lascino trascinare nell’Internazionale da un’altra esca, come sperare che il proletariato di tutti i paesi, trovandosi in condizioni così diverse di temperamento, di cultura, e di sviluppo economico, potrà attaccarsi al giogo di un programma politico uniforme? Non si potrebbe concepirlo, sembra, senza demenza. Ebbene, il sig. Marx non si è soltanto trastullato a concepirlo, l’ha voluto mettere in pratica. Stracciando con un colpo di mano dispotico il patto dell’Internazionale, egli ha voluto, pretende ancora oggi, imporre, un programma politico uniforme, il suo proprio programma, a tutte le Federazioni dell’Internazionale, cioè al proletariato di tutti i paesi!

Ne è risultato un grandissimo dissidio nell’Internazionale. Non bisogna farsi illusioni, la grande unità dell’Internazionale è stata messa in questione, e ciò, lo ripeto ancora, grazie unicamente al partito marxiano, che, mediante il Congresso dell’Aia, ha tentato d’imporre il pensiero, la volontà, la politica del suo capo a tutta l’Internazionale. È evidente che se le risoluzioni del Congresso dell’Aia dovessero essere considerate come l’ultima parola, o anche soltanto come una parola seria, non falsificata, dell’Internazionale, la nostra grande e bella Associazione non avrebbe più che una sola cosa da fare, cioè dissolversi. Perché bisogna essere veramente insensati per concepire che i lavoratori dell’Inghilterra, dell’Olanda, del Belgio, della Francia, del Giura, dell’Italia, della Spagna, dell’America, senza parlare già dei lavoratori slavi, vorranno sottomettersi alla disciplina marxiana.

E pertanto, se si crede, con i politici di ogni specie dell’Internazionale, con i giacobini rivoluzionari, con i blanquisti, con i democratici repubblicani, senza dimenticare i democratici socialisti o marxiani, che la questione politica deve fare parte integrante del programma dell’Internazionale, bisognerà confessare che il sig. Marx ha ragione. Non potendo l’Internazionale costituire una potenza che essendo una, bisognerà assolutamente che il suo programma politico sia uno, lo stesso per tutti, perché altrimenti vi sarebbero tante internazionali quanti programmi differenti vi saranno. Ma siccome è evidentemente impossibile che i lavoratori di tanti paesi diversi si uniscano liberamente e spontaneamente sotto uno stesso programma politico, essendo oggi l’Internazionale lo strumento necessario per l’emancipazione del proletariato, e non potendo questa Internazionale salvaguardare la sua unità che alla condizione di non riconoscere che un solo programma politico, bisognerà imporlo loro. Per non avere l’aria d’imporlo loro dispoticamente, attraverso un decreto del Consiglio generale o marxiano, che, dimostrando in una maniera tutta nuova quanta verità vi sia nel sistema rappresentativo e nel suffragio universale, in nome della libera volontà di tutti, decreterà la schiavitù di tutti. Ecco ciò che ha fatto in realtà il Congresso dell’Aia.

Fu per l’Internazionale la battaglia e la capitolazione di Sedan, l’invasione trionfante del pangermanesimo non bismarckiano, ma marxiano, che imponeva il programma politico dei comunisti autoritari o democratici socialisti della Germania, e la dittatura del loro capo al proletariato di tutti gli altri paesi dell’America e dell’Europa. Per nascondere meglio il suo gioco e per indorare un po’ la pillola, questo memorabile Congresso ha mandato in America un simulacro del Consiglio generale, eletto e scelto dal sig. Marx stesso, e che, obbedendo sempre alla sua direzione occulta, assumerà tutte le apparenze, le noie e le responsabilità del potere, lasciandone al sig. Marx, protetto dalla sua ombra, l’esercizio reale.

Ebbene, dichiaro che per quanto disgustoso possa apparire questo gioco a degli amici delicati e timorati, era assolutamente necessario dal momento che si era ammesso che la questione politica doveva essere determinata nel programma dell’Internazionale. Poiché l’unità dell’azione politica è riconosciuta necessaria, non potendo sperare di vederla uscire liberamente dall’intesa spontanea delle federazioni e sezioni dei diversi paesi, si è dovuto imporla loro. In questa sola maniera si è potuto creare quella unità politica tanto desiderata e predicata, ma nello stesso tempo si è creato la schiavitù.

Riassumo la questione: introducendo la questione politica nel programma obbligatorio dell’Internazionale, si è posta la nostra Associazione in un terribile dilemma, di cui ecco i due termini:

  • O l’unità con la schiavitù.
  • O la libertà con la divisione e la dissoluzione.

Come uscirne? Molto semplicemente ritornando ai nostri primitivi statuti generali, che fanno astrazione della questione propriamente politica, lasciando il suo sviluppo alla libertà delle federazioni e delle sezioni. Ma allora ogni federazione, ogni sezione seguirà la direzione politica che vorrà? – Senza dubbio. – Ma allora l’Internazionale si trasformerà in una torre di Babele? – Al contrario, soltanto allora essa costituirà la sua reale unità, economica prima, e necessariamente politica poi; allora creerà, senza dubbio non in un sol colpo, la grande politica dell’Internazionale, emanata non da una testa isolata, ambiziosa, molto sapiente e tuttavia incapace di abbracciare i mille bisogni del proletariato, per quanto imbottita di cervello sia, ma dall’azione assolutamente libera, spontanea e simultanea dei lavoratori di tutti i paesi.

La base di questa grande unità, che vanamente si cercherebbe nelle idee filosofiche e politiche del giorno, si trova completamente data attraverso la solidarietà delle sofferenze, degli interessi, dei bisogni e delle reali aspirazioni del proletariato del mondo intero. Questa solidarietà non è affatto da creare, essa esiste di fatto; costituisce la vita propria, l’esperienza quotidiana del mondo operaio, e tutto ciò che resta da fare è di fargliela conoscere e di aiutarlo ad organizzarla coscientemente. È la solidarietà delle rivendicazioni economiche. Averlo compreso, questo è, secondo me, l’unico, ma, nello stesso tempo, il grandissimo merito dei primi fondatori della nostra Associazione, tra i quali, mi piace ricordarlo sempre, il sig. Marx ha avuto un ruolo così utilmente preponderante, eccetto alcune velleità tutte politiche e tedesche che il Congresso di Ginevra ha eliminato saggiamente dal programma che egli aveva presentato.

Ho sempre evitato di chiamare il sig. Marx e i suoi numerosi collaboratori i “fondatori“ dell’Internazionale; non perché, ispirato da un qualsiasi sentimento meschino, voglia diminuire il loro merito, al quale al contrario amo molto rendere giustizia, ma perché realmente sono convinto che l’Internazionale non è affatto stata opera loro, ma bensì quella del proletariato stesso. Essi ne furono in qualche modo gli ostetrici, ma non gli autori. Il grande autore, incosciente come lo sono ordinariamente gli autori di cose molto grandi, fu il proletariato, rappresentato da qualche centinaia di anonimi operai, francesi, inglesi, belgi, svizzeri e tedeschi. Fu il loro vivo e profondo istinto di lavoratori provati dall’oppressione e dalla sofferenza inerente alla loro posizione che ha fatto trovare loro il vero principio e il vero scopo dell’Internazionale: la solidarietà dei bisogni come base già esistente, e l’organizzazione internazionale della lotta economica del lavoro contro il capitale come vero oggetto di questa Associazione. Dandogli esclusivamente questa base e questo scopo, essi stabilirono in un sol colpo tutta la potenza dell’Internazionale.

Essi ne aprirono ampiamente le porte a tutti i milioni di oppressi e di sfruttati dell’attuale società, astrazione fatta delle loro credenze, del loro grado di cultura, della loro nazionalità. Perché per concepire il desiderio e per avere il diritto di entrare nell’Internazionale, conformemente ai suoi statuti primitivi, non occorsero e non occorrono ancora oggi che le seguenti condizioni:

  1. Essere un lavoratore serio, cioè provare realmente le sofferenze alle quali il proletariato si trova assoggettato ai nostri giorni, o almeno, se si è nati in una qualsiasi classe privilegiata, volere francamente, senza reticenze e senza ambiziosi secondi fini, la piena emancipazione del mondo operaio;
  2. Comprendere che questa emancipazione non può essere un fatto individuale né locale, né il fatto eccezionale di un qualsiasi mestiere isolato; ma che essa non può realizzarsi che a condizione di abbracciare in un’azione solidale i lavoratori di tutti i mestieri industriali, commerciali ed agricoli, il proletariato di tutti i comuni, di tutte le province, di tutti i paesi, di tutti i continenti, e di formare di conseguenza una potente reale organizzazione della solidarietà internazionale di tutti i lavoratori sfruttati di tutto il mondo contro lo sfruttamento sistematico e legale di tutti i capitalisti e di tutti i proprietari del mondo;
  3. Comprendere che le classi possidenti, che sfruttano e governano, non faranno mai volontariamente, per generosità o per giustizia, alcuna concessione, per quanto urgente sembri e per quanto lieve sia, al proletariato; perché è contro natura, e precisamente contro la loro natura particolare, in modo tale che non si ha mai avuto l’esempio nella storia che una classe dominante abbia fatto di buon grado tali sacrifici; non avendo mai acconsentito nessun privilegiato a farne nemmeno di molto piccoli che quando, invaso e minacciato nella sua stessa esistenza dalla potenza ascendente del proletariato, si è visto costretto a farne di molto più importanti. Perciò, di conseguenza, il proletariato non deve attendere nulla né dall’intelligenza, né dall’equità dei borghesi, e ancora meno dalla loro politica, fosse anche quella dei radicali borghesi e dei borghesi cosiddetti socialisti, e, infine, nemmeno dai rappresentanti borghesi della scienza, e che l’emancipazione dei lavoratori non può essere esclusivamente che l’opera dei lavoratori stessi, come si è detto all’inizio dei nostri considerando. Il che significa che i lavoratori non potranno realizzare questa emancipazione e conquistare i loro diritti umani che a viva forza, attraverso la guerra organizzata dei lavoratori di tutto il mondo contro i capitalisti e i proprietari sfruttatori del mondo intero;
  4. Comprendere che per meglio vincere in questa guerra internazionale, i lavoratori di tutti i paesi devono organizzare internazionalmente la loro potenza solidale, e che questo è il vero, l’unico scopo dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori;
  5. Comprendere che, dato che questa organizzazione non ha altro scopo che l’emancipazione dei lavoratori per essi stessi, essa non può essere costituita che direttamente ed immediatamente da essi stessi, per la loro azione spontanea, cioè dal basso in alto tramite la via francamente popolare della libera federazione, al di fuori di tutte le combinazioni politiche degli Stati, e non dall’alto in basso, alla maniera di tutti i governi più o meno centralizzatori, aristocratici e borghesi;
  6. Comprendere che, dato che il proletario, il lavoratore manuale, l’uomo da fatica, è il rappresentante storico della primitiva e, nello stesso tempo, dell’ultima schiavitù sulla terra, la sua emancipazione è l’emancipazione di tutti, il suo trionfo è il trionfo finale dell’umanità; e che, di conseguenza, l’organizzazione della potenza del proletariato di tutti i paesi per mezzo dell’Internazionale e la guerra che essa solleva contro tutte le classi sfruttatrici e dominanti non possono avere per scopo la costituzione di un nuovo privilegio, di un nuovo monopolio, di una classe, di una nuova dominazione, o di un nuovo Stato, ma la fondazione della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità di tutti gli esseri umani, sulle rovine di tutti i privilegi, di tutte le classi, di tutti gli sfruttamenti, di tutte le dominazioni, in una parola di tutti gli Stati;
  7. Si deve comprendere infine che, poiché lo scopo unico dell’Internazionale è la conquista di tutti i diritti umani per i lavoratori, per mezzo dell’organizzazione della loro solidarietà militante attraverso le differenze di tutti i mestieri e le frontiere politiche e nazionali di tutti i paesi, la legge suprema e per così dire unica che ognuno s’impone entrando in questa salutare e straordinaria Associazione, è di sottomettersi e di sottomettere d’ora in poi tutti i suoi atti, volontariamente, appassionatamente, con piena conoscenza di causa e nel suo interesse proprio come altrettanto in quello dei suoi fratelli di tutti i paesi, a tutte le condizioni, conseguenze ed esigenze di questa solidarietà.

Ecco i veri princìpi dell’Internazionale. Essi sono così ampi, così umani, e nello stesso tempo così semplici, che bisogna essere un borghese ben interessato alla conservazione del monopolio, o molto abbrutiti dai pregiudizi borghesi, per non comprenderne affatto e per non riconoscerne la perfetta giustezza. Per falsificarli, c’è voluto un democratico socialista della scuola del sig. Marx. Ma non vi è nessun vero e serio proletario, per quanto poco colto o per quanto intontito sia da questa massa di pregiudizi, sia religiosi che politici, che vengono fatti piovere sistematicamente sulla sua povera testa, fin dalla sua più tenera infanzia, al quale, con un poco di pazienza e di buona volontà, non si possa far comprendere tutto ciò in una conversazione di alcune ore. Perché già egli porta tutto ciò nel suo istinto e in tutte le sue aspirazioni sviluppati ogni giorno di più dalle sue esperienze, dai suoi dolori quotidiani. Spiegandogli questi princìpi, e deducendogli tutte le applicazioni pratiche, non si farà che dare una forma, un nome, a ciò che egli sente. Ecco ciò che attirerà invincibilmente la massa del proletariato nell’Internazionale, se l’Internazionale, nel momento in cui si organizza e si sviluppa sempre più, resterà fedele alla semplicità del suo programma e della sua istituzione primitiva.

Non si può commettere più grande errore che quello di domandare sia a una cosa, sia ad un’istituzione, sia ad un uomo, più di quanto non possano dare. Esigendo di più da essi, li si demoralizza, li si ostacola, li si falsa, li si uccide. L’Internazionale, in poco tempo, ha prodotto grandi risultati. Ha organizzato, e organizzerà ogni giorno in un modo anche più straordinario, il proletariato per la lotta economica. Questa è forse una ragione per sperare che ci si possa servire di essa come di uno strumento per la lotta politica?

Il sig. Marx, per averlo sperato, ha corso il rischio di assassinare l’Internazionale con il suo criminale tentativo dell’Aia. È la storia della gallina dalle uova d’oro. All’appello per la lotta economica, masse di lavoratori dei diversi paesi sono accorse per schierarsi sotto la bandiera dell’Internazionale, e il sig. Marx si era immaginato che le masse vi sarebbero rimaste, che dico? che sarebbero accorse in quantità ancora più straordinaria, quand’egli, nuovo Mosè, avrebbe iscritto le sentenze del suo decalogo politico sulla nostra bandiera, nel programma ufficiale e obbligatorio dell’Internazionale.

Ecco dove è stato il suo errore. Le masse, senza differenza nel grado di cultura, di credenze religiose, di paesi e di lingue, avevano compreso il linguaggio dell’Internazionale, quando essa aveva parlato della loro miseria, della loro sofferenza e della loro schiavitù sotto il giogo del capitale e della proprietà sfruttatrice; esse l’hanno compreso quando essa ha loro dimostrato la necessità di unire i loro sforzi in una grande lotta solidale e comune. Ma ecco che si viene a parlar loro di un programma politico molto sapiente, soprattutto molte autoritario, e che, in nome della loro propria salvezza, viene ad imporre loro, in questa stessa Internazionale che doveva organizzare la loro emancipazione attraverso i loro sforzi, un governo dittatoriale, senza dubbio provvisorio, ma, nell’attesa, del tutto arbitrario, e diretto da una testa straordinariamente piena di cervello.

A quale grado di demenza bisogna che sia stato spinto sia per l’ambizione, sia per la vanità, sia per entrambe assieme, per avere potuto concepire la speranza che si potessero trattenere le masse operaie dei diversi paesi dell’Europa e dell’America, sotto la bandiera dell’Internazionale, a queste condizioni!

Ma il successo più trionfante non ha dato ragione al sig. Marx, e al Congresso dell’Aia non hanno forse votato tutto ciò che aveva comandato?

Nessuno meglio del sig. Marx sa quanto poco le risoluzioni votate da quel disgraziato Congresso dell’Aia esprimano il pensiero e le aspirazioni reali delle Federazioni di tutti i paesi. La composizione e la falsificazione di quel Congresso gli sono costate troppa pena perché possa farsi la minima illusione sul suo vero significato e valore. E, d’altronde, se anche avesse potuto per un istante farsi questa illusione, ciò che accade oggi è adatto per dissiparla completamente. Eccettuato il Partito della democrazia socialista della Germania, le Federazioni di tutti i paesi, gli Americani, gli Inglesi, gli Olandesi, i Belgi, i Francesi, gli Svizzeri del Giura, gli Spagnoli e gli Italiani protestano contro tutte le risoluzioni di quel nefasto e vergognoso Congresso, o piuttosto contro quell’ignobile intrigo.

Ma lasciamo da parte la questione morale, e non consideriamo che la parte principale della questione. Un programma politico non ha valore che quando, uscendo dalle vaghe generalità, determina in modo preciso le istituzioni, che propone di mettere al posto di quelle che vuole rovesciare o riformare. Tale è, in effetti, il programma del sig. Marx. È una impalcatura completa di istituzioni economiche e politiche fortemente centralizzate e molto autoritarie, sanzionate senza dubbio, come tutte le istituzioni dispotiche nella società moderna, dal suffragio universale, ma tuttavia sottomesse ad un governo molto forte, per servirmi delle espressioni proprie del sig. Engels, l’alter ego del sig. Marx, il confidente del legislatore.

Ma perché è precisamente proprio questo programma che si pretende introdurre ufficialmente, obbligatoriamente, negli statuti dell’Internazionale? Perché non quello dei blanquisti? Perché non il nostro? Sarebbe forse perché l’avrebbe inventato il sig. Marx? Non è una ragione. O perché gli operai della Germania sembrano accettarlo? Ma il programma anarchico è accettato, escluso pochissime eccezioni, da tutte le Federazioni latine; gli Slavi non ne accetteranno mai altri. Perché dunque il programma autoritario dei Tedeschi dovrebbe dominare nell’Internazionale, che solo la libertà ha creato e che non potrà mai prosperare che nella libertà e per la libertà? Sarebbe forse perché gli eserciti tedeschi non sono riusciti a conquistare la Francia? Ma anche questa non sarebbe [una ragione]; sarebbe piuttosto, al contrario, una ragione per diffidare molto di un programma che ci viene oggi dalla Germania!

I Tedeschi hanno una maniera di valutare gli uomini, i fatti e le cose completamente singolare. Lo trovo, per esempio, nel n. 81 (del 9 ottobre 1872) del “Volksstaat”, l’organo ufficiale e principale del Partito degli operai democratici socialisti della Germania, un organo che viene pubblicato a Lipsia non sotto la redazione, ma sotto l’ispirazione immediata e diretta del sig. Marx stesso, il seguente trafiletto:

“Una notizia. L’interdizione dell’Internazionale in Francia è soppressa! – È possibile! – Non lo credete? E tuttavia è così. L’Internazionale, che era stata espulsa attraverso la porta delle associazioni (die durch das Vereinsthor hinausgehetzt war), è di nuovo rientrata trionfante nella Capitale della Francia attraverso il negozio di un libraio. Il Capitale di Karl Marx tradotto in francese è in vendita presso Lachâtre a Parigi. In questo momento stesso abbiamo qui davanti la prima serie magnificamente stampata di questa opera con il ritratto e l’autografo dell’autore...”

Non è incredibile! Non è forse tutto tedesco! Vi domando se, in un qualunque altro paese, si oserebbe stampare una cosa simile in un giornale che si dice democratico, socialista, organo dell’Internazionale, e che pretende di rappresentare, che rappresenta, ohimè! in effetti una organizzazione molto numerosa di operai. Come! l’apparizione del libro, del ritratto e dell’autografo del sig. Karl Marx, in una libreria di Parigi, equivale al ritorno trionfante dell’Internazionale in Francia! È buffonesco, è ignobile, ed è la più grossolana ingiuria che si sia gettata sull’Internazionale! Dunque, un solo uomo, che questo sia Marx o un altro, ha tanto peso quanto tutta l’Internazionale! Per osare dire simili cose agli operai della Germania, che fanno di questo giornale la loro lettura quotidiana, non occorre forse disprezzarli molto e crederli piegati a tutte le discipline e a tutte le umiliazioni? L’idolatria delle persone e il culto dell’autorità sono entrati molto profondamente nei costumi dei Tedeschi; ma non mi sarei mai immaginato che fossero depravati al punto che un giornale popolare, letto da almeno una o due decine di migliaia di operai, osasse impunemente stampare simili cose. Il“Volksstaat” l’ha fatto senza dubbio molto ingenuamente, e nessuno in Germania se ne è risentito.

Ed è il programma politico applaudito da una democrazia socialista simile che il Congresso dell’Aia ha preteso imporre alle Federazioni libere di tutti i paesi!

È evidente che, a meno di voler tiranneggiare le Federazioni di molti paesi, imponendo loro sia con la violenza, sia con l’intrigo, sia con entrambi insieme, il programma politico di un solo paese; o anche, ciò che è molto più probabile, a meno di dissolvere l’Internazionale, dividendola in molti tronconi, di cui ciascuno seguirebbe il suo proprio programma politico – per salvare la sua integrità e per assicurare la sua prosperità, non vi è che un solo mezzo: è di mantenere l’originaria eliminazione della questione politica dal programma ufficiale e obbligatorio dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, organizzata non per la lotta politica, ma unicamente per la lotta economica, e rifiutandosi assolutamente per lo stesso motivo di servire da strumento politico tra le mani di chicchessia. A tal punto che tutte le volte che si vorrà impiegarla come una potenza politica positiva in una lotta positivamente politica dei differenti partiti di Stato, essa si demoralizzerà immediatamente, si sminuirà, si limiterà e si dissolverà in una maniera ostensibile, e finirà col distruggersi del tutto nelle mani di colui che follemente s’immaginerà tenere quella potenza.

Ma allora sarebbe dunque vietato occuparsi di questioni politiche e filosofiche nell’Internazionale? L’Internazionale, facendo astrazione da tutto lo sviluppo che si fa nel mondo del pensiero, come altrettanto degli avvenimenti che accompagnano o che seguono la lotta politica, sia esterna che interna, degli Stati, non si occuperebbe più che della questione economica? Essa farebbe della statistica comparata, studierebbe le leggi della produzione e della distribuzione delle ricchezze, si occuperebbe esclusivamente del regolamento dei salari, formerebbe delle casse di resistenza, organizzerebbe degli scioperi locali, nazionali, internazionali, costituirebbe localmente, nazionalmente e internazionalmente i corpi di mestiere, e formerebbe delle società cooperative di credito mutuale, di consumo e di produzione, nei momenti e nelle località e paesi dove simili creazioni sarebbero possibili?

Ma una tale astrazione è assolutamente impossibile. Questa preoccupazione esclusiva degli interessi soltanto economici, sarebbe per il proletariato la morte. Senza dubbio la difesa e l’organizzazione di questi interessi – questione di vita o di morte per lui – devono costituire la base di tutta la sua azione attuale. Ma gli è impossibile arrestarsi lì senza rinunciare all’umanità, e senza privarsi anche della forza intellettuale e morale necessaria alla conquista dei suoi diritti economici. Senza dubbio nello stato miserabile nel quale si vede ora ridotto, il primo problema che gli si presenta, è quello del pane quotidiano, del pane della famiglia; ma, più di tutte le classi privilegiate oggi, è un essere umano, in tutta la pienezza di questa parola, e come tale ha sete di dignità, di giustizia, di uguaglianza, di libertà, di umanità e di scienza, e intende conquistare tutto ciò contemporaneamente al pieno godimento del prodotto integrale del suo proprio lavoro. Dunque, se le questioni politiche e filosofiche non fossero state nemmeno poste nell’Internazionale, il proletariato stesso le avrebbe poste infallibilmente.

Ma allora come risolvere questa apparente contraddizione: da un lato, le questioni filosofiche e politiche devono essere escluse dal programma dell’Internazionale, e dall’altro esse devono necessariamente esservi discusse?

Questo problema si risolve da solo attraverso la libertà. Nessuna teoria filosofica o politica deve entrare, come fondamento essenziale, ufficiale, e come condizione obbligatoria, nel programma dell’Internazionale, perché, come noi abbiamo appena visto, ogni teoria imposta diverrebbe, per tutte le Federazioni di cui l’Associazione si compone oggi, sia una causa di schiavitù, sia la causa di una divisione e di una dissoluzione non meno disastrosa. Ma non ne consegue che tutte le questioni politiche e filosofiche non possano e non debbano essere liberamente discusse nell’Internazionale. Al contrario, è l’esistenza di una teoria ufficiale che ucciderebbe, rendendola assolutamente inutile, la discussione viva, cioè lo sviluppo del pensiero proprio nel mondo operaio. Dal momento che vi sarebbe una verità ufficiale, scientificamente scoperta dal lavoro isolato di quella grande testa eccezionalmente – e perché anche non provvidenzialmente? – provvista di cervello, una verità annunciata ed imposta a tutto il mondo dall’alto del Sinai marxiano, perché discuterla? Non resta altro che impararne a memoria tutti gli articoli del nuovo Decalogo.

Al contrario, se nessuno ha né può avere la pretesa di dare la verità, la si cerca. Chi la cerca? Tutti, e soprattutto il proletariato che ne ha sete e bisogno più di tutti gli altri.

Molti non vorranno credere a questa ricerca spontanea della verità politica e filosofica da parte del proletariato stesso. Io ora tenterò di dimostrare come questa ricerca si effettui nel seno stesso dell’Internazionale.

I lavoratori, ho detto, non entrano nell’Internazionale e non vi si organizzano da prima che con un fine eminentemente pratico, quello della rivendicazione solidale della pienezza dei loro diritti economici contro lo sfruttamento oppressivo della borghesia di tutti i paesi. Notate che, per questo solo fatto – incosciente, se volete, da prima – il proletariato si pone già, sotto un doppio aspetto, in una situazione molto decisivamente, ma anche molto negativamente, politica. Distrugge, da un lato, le frontiere politiche e tutta la politica internazionale degli Stati, in quanto fondata sulle simpatie, sulla cooperazione volontaria e sul fanatismo patriottico nelle masse asservite; e, dall’altro, accresce l’abisso fra la borghesia e il proletariato, e pone quest’ultimo al di fuori dell’azione e del gioco politico di tutti i partiti dello Stato; ma, mettendolo al di fuori di ogni politica borghese, lo indirizza necessariamente contro di essa.

Dunque ecco una posizione politica ben determinata, nella quale il proletariato si trova posto, prima inconsciamente come io ho appena detto, per il solo fatto della sua adesione all’Internazionale. È vero che è una posizione politica assolutamente negativa, e la grande colpa, per non dire il tradimento e il crimine dei democratici socialisti che trascinano il proletariato della Germania nelle vie del programma marxiano, è di aver voluto trasformare questa inclinazione negativa in una cooperazione positiva alla politica dei borghesi.

L’Internazionale, mettendo così il proletariato al di fuori della politica degli Stati e del mondo borghese, costituisce un mondo nuovo, il mondo del proletariato solidale di tutti i paesi. Questo mondo è quello dell’avvenire; è, da un lato, l’erede legittimo ma, nello stesso tempo, il demolitore e l’affossatore di tutte le civiltà storiche, privilegiate e, come tali, completamente esaurite e condannate a morire; di conseguenza il creatore obbligato di una nuova civiltà, fondata sulla rovina di tutte le autorità divine ed umane, di tutte le schiavitù e di tutte le ineguaglianze. Questa è la missione e, di conseguenza, questo è il vero programma dell’Internazionale, non ufficiale, – tutti gli dèi del paradiso pagani e cristiani ce ne guardino! – ma implicito, inerente alla sua organizzazione stessa.

Il suo programma ufficiale, io lo ripeterò mille volte, è molto semplice e, in apparenza, molto modesto: è l’organizzazione della solidarietà internazionale per la lotta economica del lavoro contro il capitale. Da questa base, prima esclusivamente materiale, deve sorgere tutto il nuovo mondo sociale, intellettuale e morale. Perché sia realmente così, bisogna che tutti i pensieri, tutte le tendenze filosofiche e politiche dell’Internazionale, nascendo nel seno stesso del proletariato, abbiano come principale punto di partenza, se non esclusivo, quella rivendicazione economica che costituisce l’essenza stessa e lo scopo manifesto dell’Internazionale. È possibile?

Sì, e in effetti è così. Chiunque abbia seguito gli sviluppi dell’Internazionale per qualche anno ha potuto accorgersi come ciò vi si effettui lentamente, senza che appaia del tutto, ora simultaneamente, ora successivamente, e sempre per tre strade diverse, ma indissolubilmente unite: prima attraverso l’organizzazione e la federazione delle casse di resistenza e la solidarietà internazionale degli scioperi, in secondo luogo, attraverso l’organizzazione e la federazione internazionale dei corpi di mestiere; e infine attraverso lo sviluppo spontaneo e diretto delle idee filosofiche e sociologiche nell’Internazionale, accompagnamento inevitabile e conseguenza, per così dire, forzata, di quei due primi movimenti.

Consideriamo ora queste tre strade nella loro azione particolare, differente, ma, come ho detto, inseparabile, e cominciamo con l’organizzazione delle casse di resistenza e degli scioperi.

Le casse di resistenza hanno per unico scopo quello di costituire il fondo necessario per rendere possibili l’organizzazione e il sostentamento così costoso degli scioperi. E lo sciopero è l’inizio della guerra sociale del proletariato contro la borghesia, ancora nei limiti della legalità. Gli scioperi sono una via preziosa sotto questo doppio rapporto, che, primo, elettrizzano le masse, ritemprano la loro energia morale e risvegliano nel loro seno il sentimento dell’antagonismo profondo che esiste fra i loro interessi e quelli della borghesia, mostrando loro, sempre di più, l’abisso che ormai li separa irrevocabilmente da quella classe; e che, poi, essi contribuiscono immensamente a provocare e a costituire fra i lavoratori di tutti i mestieri, di tutte le località e di tutti i paesi, la coscienza e il fatto stesso della solidarietà: doppia azione, una negativa e l’altra completamente positiva, che tende a costituire direttamente il nuovo mondo del proletariato, opponendolo, in una maniera quasi assoluta, al mondo borghese.

È una cosa degna di nota che il radicalismo, come il socialismo borghese, si siano sempre dichiarati gli antagonisti accaniti del sistema degli scioperi e abbiano fatto, e facciano ancora oggi, quasi ovunque, degli sforzi inimmaginabili per distoglierne il proletariato. Mazzini non ha mai voluto sentir parlare degli scioperi; e se i suoi discepoli, d’altronde passabilmente demoralizzati, disorientati e disorganizzati dopo la sua morte, oggi prendono, del resto molto timidamente, la loro difesa, è perché la propaganda della rivoluzione sociale ha talmente invaso le masse italiane, e perché le rivoluzioni sociali si sono manifestate con una tale potenza nei differenti scioperi che ultimamente sono scoppiati contemporaneamente in molti punti dell’Italia, che essi hanno sentito che, se si fossero opposti più a lungo a questo movimento irresistibile e formidabile, essi si sarebbero trovati presto completamente soli. Mazzini, con tutti i radicali e i socialisti borghesi dell’Europa, aveva avuto ben ragione a condannare gli scioperi – dal suo punto di vista, s’intende.

Cosa voleva? Che vogliono ancora i mazziniani, che oggi spingono lo spirito di conciliazione fino ad unirsi anche con i cosiddetti radicali del Parlamento italiano? La costruzione di un grande Stato unitario, democratico e repubblicano. Ma per costruire questo Stato, bisogna rovesciare prima quello che esiste, e perciò il braccio potente del popolo è indispensabile. Una volta che il popolo avrà reso questo grande servizio ai politici della scuola mazziniana, lo si rimanderà naturalmente nelle sue officine o nelle sue campagne, perché vi riprenda il suo lavoro così utile, sotto l’egida non più paterna, ma fraterna, benché non meno autoritaria, del nuovo governo repubblicano. Ora, al contrario, bisogna chiamarlo sulla piazza pubblica. Come sollevarlo?

Fare appello ai suoi istinti socialisti? È impossibile. Sarebbe il mezzo più sicuro per aizzare contro di sé e contro la repubblica che si sogna, tutta la classe dei capitalisti e dei proprietari, ed è esattamente con essi che si vuole vivere e che si vuole costituire il nuovo governo. Non si costituisce un governo regolare con delle masse barbare, ignoranti, anarchiche, soprattutto quando queste masse sono state sollevate nel nome delle loro rivendicazioni economiche attraverso la passione della giustizia, dell’uguaglianza e della loro reale libertà, che è incompatibile con qualsiasi governo. Dunque, bisogna evitare la questione sociale, e sforzarsi di risvegliare [presso i lavoratori] le passioni politiche e patriottiche, grazie alle quali il loro cuore potrà battere all’unisono con il cuore dei borghesi, e il loro braccio sarà disposto a rendere ai politici radicali di quella classe il prezioso servizio che domandano, quello di rovesciare il governo della monarchia.

Ma noi abbiamo [visto] che gli scioperi hanno per primo effetto quello di distruggere quell’armonia commovente e così vantaggiosa alla borghesia, ricordando al proletariato che esiste un abisso fra quella e lui stesso, e risvegliando nel suo seno delle passioni socialiste che sono assolutamente incompatibili con le passioni politiche e patriottiche. Dunque, Mazzini ha avuto mille volte ragione: bisogna condannare gli scioperi.

Si è mostrato in ciò mille volte più logico che i marxiani, capi attuali del Partito della democrazia socialista della Germania, che pongono anch’essi come scopo immediato e principale dell’agitazione legale del loro partito, la conquista del potere politico, e che, di conseguenza, come Mazzini, vogliono servirsi della potenza muscolare del popolo tedesco per conquistare quel potere, così ardentemente bramato, per offrirlo, senza dubbio, al loro capo supremo, il dittatore dell’Internazionale, il sig. Marx.

Vi sono oggi, tra il programma politico dei marxiani e quello dei mazziniani, più punti di somiglianza di quanto ci si possa immaginare, ed io non sarei per niente stupito se il sig. Marx, certamente respinto da tutti i rivoluzionari socialisti seri e sinceri dell’Italia, finisse per concludere un’alleanza offensiva e difensiva con il partito, i discepoli del suo irriconciliabile antagonista, Mazzini. Mazzini, malgrado tutto il suo idealismo, tanto profondo quanto sincero, e che gli faceva disprezzare i beni materiali per se stesso e, facendo senza dubbio una concessione necessaria alla brutalità inerente alle masse, aveva fatto loro quasi tutte le promesse economiche e sociali che oggi fa loro Marx. È anche giunto fino a parlare loro dell’uguaglianza economica e del diritto di ogni lavoratore al prodotto integrale del suo lavoro. Ma questa sola parola non contiene in effetti tutta la rivoluzione sociale?

Mazzini, per le ragioni che ho appena esposto, non voleva affatto l’antagonismo delle masse contro le classi. Ma il sig. Marx lo vuole ben sinceramente, questo antagonismo, che rende assolutamente impossibile ogni partecipazione delle masse all’azione politica dello Stato? Perché questa azione, al di fuori della borghesia, non è affatto praticabile; essa non è possibile che quando si sviluppa di concerto con un qualsiasi partito di quella classe e si lascia dirigere da dei borghesi. Il sig. Marx non può ignorare tutto ciò; e del resto ciò che succede oggi a Ginevra, a Zurigo, a Basilea, e in tutta la Germania, dovrebbe bene aprirgli gli occhi, se su questo punto li aveva chiusi, ciò che francamente non credo. Mi è impossibile crederlo, dopo aver letto il discorso che ha pronunciato ultimamente ad Amsterdam e nel quale ha detto che, in certi paesi, e forse anche in Olanda, la questione sociale poteva essere risolta pacificamente, legalmente, senza lotta, in via amichevole, ciò che non può significare altra cosa che questo: essa può risolversi con una serie di transazioni successive, pacifiche, volontarie e sagge, fra la borghesia e il proletariato. Mazzini non ha mai detto altro.

Infine Mazzini e Marx sono d’accordo ancora su questo punto capitale, che le grandi riforme sociali che devono emancipare il proletariato non possono essere realizzate che da un grande Stato democratico, repubblicano, molto potente e fortemente centralizzato e che, per la stessa salvezza del popolo, per potergli dare l’istruzione e il benessere, bisogna imporgli, per mezzo del suo stesso suffragio, un governo molto forte.

Fra Mazzini e Marx esiste tuttavia un’enorme differenza, e questa è tutta ad onore di Mazzini. Mazzini era un credente profondo, sincero, appassionato. Egli adorava il suo Dio, al quale rapportava tutto ciò che sentiva, tutto ciò che pensava, tutto ciò che faceva. In relazione alla sua stessa persona, era l’uomo più semplice, più modesto, più distaccato da se stesso. Il suo cuore traboccava d’amore per l’umanità e di benevolenza per tutti. Ma diventava spietato, furioso, quando si toccava il suo Dio.

Il sig. Marx non crede in Dio, ma crede molto in se stesso, e rapporta tutto a se stesso. Ha il cuore pieno non di amore, ma di fiele, e molto poca benevolenza naturale per gli uomini, ciò che, tuttavia, non gli impedisce di diventare altrettanto furioso e infinitamente più malvagio di Mazzini, quando si osi solamente mettere [in] questione l’onniscienza della Divinità che adora, cioè del sig. Marx stesso. Mazzini voleva imporre all’umanità il giogo di Dio, il sig. Marx pretende imporle il suo. Io non voglio né l’uno né l’altro, ma, se fossi costretto a scegliere, preferirei ancora il Dio mazziniano.

Ho creduto dover dare questa spiegazione perché i discepoli, e amici di Mazzini, non possano accusarmi di ingiuriare la memoria del loro maestro paragonandolo al sig. Marx. Io ritorno al mio soggetto.

Dunque dico che, per tutte le ragioni che ho esposto, non mi meraviglierò per nulla se sentiremo parlare presto di una riconciliazione, di un’intesa, di un’alleanza fra l’agitazione mazziniana e l’intrigo marxiano in Italia. Se questa non si realizza, sarà colpa dei mazziniani, non del sig. Marx. Sostengo che, per poco che il partito marxiano, quello della democrazia cosiddetta socialista, continui a marciare sulla strada delle rivendicazioni politiche, si vedrà costretto a condannare, presto o tardi, quella della rivendicazione economica, la strada degli scioperi, a tal punto queste due vie sono realmente incompatibili.

Noi abbiamo avuto un esempio sorprendente di questa incompatibilità nel 1870 a Ginevra, dove, un grande sciopero di operai edili era scoppiato prima della guerra, gli internazionalisti-cittadini della “fabbrica”, dopo aver sostenuto ed anche incoraggiato questo sciopero per un po’ di tempo, per ostentazione, lo fecero cessare d’un colpo e quasi per forza, a detrimento di quei disgraziati operai, appena i capi del partito radicale borghese di Ginevra ne ebbero intimato loro l’ordine. Abbiamo egualmente visto, sei o otto mesi fa, sempre a Ginevra, un avvocato appartenente al partito radicale e contemporaneamente all’Internazionale, il sig. Amberny – quello che il sig. Marx stesso, in una lettera che gli ha spedito, ha graziosamente ringraziato di aver servito l’Internazionale di Ginevra – garantire pubblicamente, davanti ai suoi concittadini borghesi, a nome dell’Internazionale, che non vi sarebbero stati scioperi per quell’anno.

Mi si obietterà che nei paesi dove l’organizzazione degli scioperi ha raggiunto un grado di potenza sconosciuto in altri paesi, vedi in Inghilterra, gli operai, lungi dal restare indifferenti alle agitazioni politiche, al contrario vi si interessano molto, e mi si mostrerà la Lega per la conquista del suffragio universale fondata da appena sei anni e che, composta in maggior parte da lavoratori manuali, costituisce già il nucleo di una forza politica francamente popolare e talmente rispettabile che gli stessi ministri di sua Maestà la regina, si vedono già costretti a tenerne conto e a parlamentare con essa.

Tutto ciò costituisce un fatto esclusivo, ma evidente, un fatto di cui mi è impossibile negare l’importanza, per quanto contrario sia alle mie idee generali. Vi sono ben anche altri fatti che si producono in questo stesso paese e in una maniera così seria che si è costretti ad accettarli o a prenderli almeno in considerazione molto seriamente, sebbene, del resto molto più in apparenza che in realtà, essi si trovino in completa opposizione con lo sviluppo logico delle idee. Tale è, per esempio, la tendenza manifesta del proletariato inglese alla costruzione di uno Stato comunista, unico banchiere, e unico proprietario della terra che amministrerà da sovrano a nome del popolo intero, e che farà coltivare, come ce l’ha spiegato un delegato inglese al Congresso di Basilea, membro dell’ex Consiglio generale di Londra, dagli operai agricoli, sotto la direzione diretta dei suoi ingegneri.

Cerchiamo di spiegarci questa apparente contraddizione di un popolo così geloso dei suoi diritti e che attende la sua emancipazione dalla potenza dello Stato. Nel mondo non esistono che due grandi paesi in cui il popolo gode realmente della libertà e della potenza politica. Sono l’Inghilterra e gli Stati Uniti d’America. La libertà è qui più che un diritto politico. È la natura sociale di tutti, talmente generale che gli stessi stranieri più diseredati, i più miserabili, qui godono di questa libertà con altrettanta pienezza quanto i cittadini più ricchi e più influenti. Essi ne godono senza esserne in alcun modo debitori ai governi di quei paesi, e senza che questi governi abbiano la minima possibilità di restringere i loro diritti, che, sotto l’aspetto della libertà, sono uguali ai diritti di tutti. Noi sappiamo ciò che è costato, dopo l’attentato di [Felice] Orsini, a Lord Palmerston, uno dei ministri più popolari che vi siano mai stati in Inghilterra, aver tentato di sottomettere la libertà degli stranieri al dispotismo ministeriale. L’indignazione unanime del popolo inglese l’avrebbe rovesciato in un sol colpo.

Il fatto che ho ricordato dimostra anche che quella libertà del popolo inglese costituisce una vera potenza, ciò che si chiama la potenza dell’opinione, ma non soltanto dell’opinione delle classi politiche o privilegiate, ma la vera potenza dell’opinione popolare, potenza che esiste come un fatto sociale e che agisce come una forza sempre latente e sempre pronta a risvegliarsi e a farsi sentire, al di fuori e al di sopra di tutte le forme politiche e dei diritti esplicitamente espressi e consacrati dalla Costituzione inglese. Non soltanto oggi che i diritti elettorali sono considerevolmente allargati, ma anche allora che erano esclusivamente concentrati nelle mani di una minoranza altamente privilegiata, le agitazioni delle masse, gli immensi meeting popolari che gli Inglesi sanno così ben organizzare, pesavano in modo molto considerevole sulla direzione politica e sulle risoluzioni del Parlamento inglese.

Si è voluto fare onore, con questo fatto, alla prudente perspicacia e alla grande saggezza politica dell’aristocrazia e della ricca borghesia. Io non pretendo contestare loro questa saggezza, ma penso che si debba cercare la principale ragione di questo fatto nel temperamento storico e nelle abitudini sociali del popolo inglese, che, da moltissimo tempo, si è abituato a fare rispettare la sua libertà e a esercitare questa pressione politica con la sua opinione e con le sue aspirazioni sugli atti dei rappresentanti legali del suo paese. In una parola, il popolo inglese non ha bisogno di conquistare né la sua libertà, né la sua potenza politica, le possiede già di fatto, nei suoi costumi. Ciò che gli manca ancora e ciò che non mancherà di conquistare presto, è la conformità completa delle sue istituzioni e delle sue leggi di fatto già da lungo tempo realizzata. Ciò che io dico del popolo inglese si rapporta naturalmente, ancora di più, al popolo degli Stati Uniti d’America, dove la libertà e dove l’azione politica direttamente esercitate dalle masse, hanno raggiunto il più alto grado di sviluppo conosciuto finora nella storia.

Si può dire che non esiste oggi, nel mondo, un altro popolo veramente politico come questi due popoli. Per essi, la politica è un fatto, una realtà ben conosciuta e da molto esercitata; per tutti gli altri, senza eccettuarne nemmeno il popolo francese, è un ideale; per i Tedeschi, è una dottrina. Il popolo francese ha avuto pure i suoi momenti politici, ma non furono che dei momenti, e per questa ragione stessa essi crearono altrettante rivoluzioni che raramente durarono dei mesi, e più spesso soltanto qualche giorno. Questi giorni furono dei giorni di libertà e di festa, durante i quali le masse, inebriate della loro vittoria, credevano di aver conquistato il diritto di respirare a pieni polmoni; dopo di che, con il loro stesso consenso, e servendosi del loro stesso suffragio, li si rimetteva di nuovo sotto quelle macchine pneumatiche che si chiamano governi, monarchici o repubblicani: il nome non cambiava niente, perché nessuno ignora che, gli uni come gli altri, in Francia, come in tutti gli altri paesi del continente dell’Europa, non hanno mai significato altra cosa che la piena compressione della libertà popolare, sotto il giogo di una burocrazia insieme religiosa, poliziesca, fiscale, militare e civile.

Se si considerano queste enormi differenze di temperamento, di sviluppo storico, di costumi e di abitudini sociali, si arriva a questa conclusione: che soltanto il popolo americano e il popolo inglese hanno la coscienza politica, e che tutti i popoli del continente dell’Europa non l’hanno assolutamente. Ora sorge un problema. Si può sperare di poter dare, attraverso la propaganda, questa coscienza ad un popolo che non la trova né nel suo temperamento, né nelle sue abitudini, né nella sua propria storia? Ciò che equivale a domandare: si può fare di un tedesco, di un francese, un americano o un inglese? Forse vi sarebbe un’altra domanda da porre: è ugualmente desiderabile vedersi risvegliare la coscienza politica presso le nazioni che ne sono state private fino ad ora, e ciò esattamente in un’epoca come la nostra, nella quale, presso gli stessi popoli che la possiedono, questa coscienza, giunta al suo punto culminante, e dopo aver prodotto tutti i suoi frutti, tende evidentemente a trasformarsi in coscienza anti-politica, cioè socialista rivoluzionaria?

Ma consideriamo la prima domanda. Una volta risolta quella, la seconda si risolverà da sola. Si può sperare di poter dare, per mezzo della propaganda più abilmente organizzata e più energicamente esercitata, alle masse popolari di una nazione, delle tendenze, delle aspirazioni, delle passioni, dei pensieri che non siano il prodotto della loro propria storia e che, di conseguenza, esse non portano affatto naturalmente, istintivamente nel loro seno? Mi sembra che ad una domanda posta così, ogni uomo coscienzioso, ragionevole, e che ha la minima idea della maniera in cui si sviluppa la coscienza popolare, non può dare che una risposta negativa. E in effetti, nessuna propaganda ha mai dato ad un popolo la sostanza delle sue aspirazioni e delle sue idee, essendo sempre stata, questa sostanza, il prodotto dello sviluppo spontaneo e delle condizioni reali della sua vita. Che può fare, dunque, la propaganda? Apportando un’espressione generale, più giusta, una forma felice e nuova, agli istinti propri del proletariato, essa può, qualche volta, facilitarne e precipitarne lo sviluppo, soprattutto dal punto di vista della loro trasformazione in coscienza e in volontà ponderata delle stesse masse. Essa può dare loro la coscienza di ciò che esse hanno, di ciò che esse sentono, di ciò che vogliono già istintivamente, ma mai essa potrà dare loro ciò che non hanno, né risvegliare nel loro seno delle passioni che sono loro estranee per la loro stessa storia.

Ora, per decidere questa questione, se per mezzo della propaganda si può dare la coscienza politica a un popolo che non l’ha mai avuta fino a quel momento, esaminiamo ciò che costituisce realmente nelle masse popolari, questa coscienza. Io dico espressamente nelle masse popolari, perché noi sappiamo molto bene che nelle classi più o meno privilegiate, questa coscienza non è altra cosa che quella del diritto conquistato, assicurato e regolato di sfruttare il lavoro delle masse e di governarle, in vista di questo sfruttamento. Ma nelle masse, che sono state eternamente asservite, governate, sfruttate, che cosa può costituire la coscienza politica? Non può essere sicuramente che una sola cosa, la santa rivolta, questa madre di ogni libertà, la tradizione della rivolta, l’arte consueta di organizzare e di far trionfare la rivolta, quelle condizioni storiche essenziali di ogni pratica reale della libertà.

Noi dunque vediamo che queste due parole, coscienza politica, fin dalla loro stessa origine, e attraverso tutto lo sviluppo della storia, hanno due sensi assolutamente diversi, opposti, secondo i due punti di vista, egualmente opposti, nei quali ci piace esaminarle. Dal punto di vista delle classi [privilegiate], significano conquista, asservimento, e organizzazione dello Stato tale e quale, in vista dello sfruttamento delle masse asservite e conquistate. Dal punto di vista delle masse, al contrario, significano rivolta contro lo Stato, e, nella loro ultima conseguenza, distruzione dello Stato. Due cose, come si vede, talmente diverse che sono diametralmente opposte.

Ora si può affermare con una certezza assoluta che non vi è mai stato nessun popolo sulla terra, per quanto imbastardito o per quanto maltrattato sia stato dalla natura, che non abbia sentito, almeno all’origine del suo asservimento, qualche velleità di rivolta. La rivolta è un istinto della vita; il verme stesso si rivolta contro il piede che lo schiaccia e, in generale, si può dire che l’energia vitale e la dignità comparativa di ogni animale si misura dall’intensità dell’istinto di rivolta che porta in se stesso. Nel mondo animale, come nel mondo umano, non vi è affatto facoltà o abitudine più degradante, più stupida e più vile, di quella di obbedire e di rassegnarsi. Ebbene, io sostengo che non vi è mai stato nessun popolo così degradato, sulla terra, che non si sia affatto rivoltato, almeno agli inizi della sua storia, contro il giogo dei suoi conquistatori, dei suoi asservitori, dei suoi sfruttatori, contro il giogo dello Stato.

Ma bisogna riconoscere che, dopo le lotte sanguinose del Medioevo, il giogo dello Stato è prevalso contro tutte le rivolte popolari e che, ad eccezione dell’Olanda e della Svizzera, si è consolidato trionfante in tutti i paesi del continente dell’Europa. Ha creato una civiltà nuova: quella dell’asservimento forzato delle masse e della schiavitù interessata e, di conseguenza più o meno volontaria, alle classi privilegiate. Ciò che si è chiamato, fino qui, rivoluzione – ivi compresa anche la grande Rivoluzione francese, malgrado la magnificenza dei programmi a nome dei quali era stata compiuta – non è stata in effetti niente altro che la lotta di quelle classi fra di loro, per il godimento esclusivo dei privilegi garantiti dallo Stato, la lotta per la dominazione e per lo sfruttamento delle masse.

Ma le masse? Ahimé! bisogna riconoscerlo, si sono lasciate profondamente demoralizzare, asservire, per non dire castrare, dall’azione deleteria della civilizzazione dello Stato. Schiacciate, avvilite, esse hanno contratto l’abitudine fatale ad una obbedienza e ad una rassegnazione pecoresca, e, di conseguenza, si sono trasformate in immense greggi artificialmente divise e ammassate, per la più grande comodità dei loro sfruttatori di ogni sorta.

Io so molto bene che i sociologi della scuola del sig. Marx, come il sig. Engels vivo, come [Ferdinand] Lassalle morto, ad esempio, mi obietteranno che lo Stato non fu affatto la causa di questa miseria, di questa degradazione e di questa schiavitù delle masse; che la miserabile situazione delle masse, come la potenza dispotica dello Stato furono, al contrario, una e l’altra, gli effetti di una causa più generale, i prodotti di una fase inevitabile nello sviluppo economico della società, di una fase che, dal punto di vista della storia, costituisce un vero progresso, un immenso passo verso ciò che essi chiamano, essi, la rivoluzione sociale. A tal punto che Lassalle non ha esitato a proclamare ad alta voce che la disfatta della formidabile rivolta dei contadini della Germania nel sedicesimo secolo – disfatta deplorevole, quant’altre mai, e dalla quale inizia la schiavitù dei Tedeschi – e il trionfo dello Stato dispotico e centralizzato che ne fu la conseguenza necessaria, costituirono un vero trionfo per questa rivoluzione; perché i contadini, dicono i marxiani, sono i rappresentanti naturali della reazione, mentre lo Stato militare, burocratico, moderno – prodotto ed accompagnamento obbligato della rivoluzione sociale che, a partire dalla seconda metà del sedicesimo secolo, ha iniziato la trasformazione lenta, ma sempre progressiva, dell’antica economia feudale o terriera in produzione di ricchezze, o, ciò che significa la stessa cosa, in sfruttamento del lavoro popolare, da parte del capitale – fu una condizione essenziale di quella rivoluzione.

Si concepisce che, spinto da quella stessa logica, il sig. Engels, in una lettera indirizzata nel corso di quest’anno ad uno dei nostri amici, abbia potuto dire, senza la minima ironia e, al contrario, molto seriamente, che il sig. Bismarck, come il re Vittorio Emanuele, hanno reso immensi servizi alla rivoluzione, avendo, sia l’uno che l’altro, creato la grande centralizzazione politica dei loro rispettivi paesi. Io raccomando molto lo studio e lo sviluppo di questo pensiero, tutto marxiano, ai Francesi alleati o partigiani del sig. Marx nell’Internazionale.

Materialisti e deterministi, come il sig. Marx stesso, anche noi riconosciamo la concatenazione fatale dei fatti economici e politici nella storia.

Riconosciamo anche la necessità, il carattere inevitabile di tutti gli avvenimenti che accadono, ma non ci inchiniamo indifferentemente davanti ad essi, e soprattutto ci guardiamo bene dal lodarli o dall’ammirarli quando, per loro natura, si mostrano in opposizione flagrante con il fine supremo della storia, con l’ideale sostanzialmente umano che si ritrova, sotto forme più o meno manifeste, negli istinti, nelle aspirazioni popolari e sotto i simboli religiosi di tutte le epoche, perché è inerente alla razza umana, la più socievole di tutte le razze animali sulla terra.

Questo fine, questo ideale, oggi più compresi che mai, possono riassumersi con queste parole: È il trionfo dell’umanità, è la conquista e il compimento della piena libertà e del pieno sviluppo materiale, intellettuale e morale di ciascuno, tramite l’organizzazione assolutamente spontanea e libera della solidarietà economica e sociale, tanto completa quanto possibile, fra tutti gli esseri umani viventi sulla terra.

Ora, tutto ciò che nella storia si mostra conforme a questo fine, dal punto di vista umano – e noi non possiamo averne altri – è buono; tutto ciò che gli è contrario è cattivo. Sappiamo anche molto bene che, ciò che noi chiamiamo buono e ciò che noi chiamiamo cattivo, sono sempre, l’uno e l’altro, dei risultati naturali di cause naturali e che, di conseguenza, uno è inevitabile quanto l’altro. Ma come, in ciò che si chiama propriamente la natura, riconosciamo molte necessità che siamo molto poco disposti a benedire, ad esempio la necessità di morire arrabbiati quando si è stati morsi da un cane arrabbiato, così, in questa continuazione immediata della vita naturale che si chiama la storia, noi incontriamo molte necessità che troviamo molto più degne di maledizione che di benedizione, e che crediamo di dover stigmatizzare con tutta l’energia di cui siamo capaci, nell’interesse della nostra moralità, sia individuale che sociale, sebbene riconosciamo che, dal momento che sono compiuti, anche i fatti storici più detestabili, recano in sé quel carattere di inevitabilità che noi ritroviamo altrettanto in tutti i fenomeni della natura che in quelli della storia.

Per rendere il mio pensiero più chiaro, lo voglio illustrare con qualche esempio. Quando studio le condizioni politiche e sociali rispettive nelle quali i Romani ed i Greci si sono imbattuti al declino dell’evo antico, arrivo a questa conclusione; che la conquista e la distruzione della libertà, in paragone così altamente umana della Grecia, da parte delle barbarie militari e civiche dei Romani, è stato un fatto logico, naturale, assolutamente inevitabile. Ma ciò non mi impedisce affatto di prendere retrospettivamente e molto risolutamente la parte della Grecia contro Roma in questa lotta, e io trovo che l’umanità non ha guadagnato assolutamente nulla dal trionfo dei Romani.

Ugualmente, considero come un fatto perfettamente naturale, logico e, di conseguenza, inevitabile, che i cristiani, che erano per grazia di Dio dei cretini, abbiano annientato, col santo furore che si sa, tutte le biblioteche dei pagani, tutti i tesori dell’arte, della filosofia e della scienza antiche. Ma mi è decisamente impossibile cogliere i vantaggi che ne sono risultati per il nostro sviluppo politico e sociale.

Sono anche molto disposto a pensare che, al di fuori di questo progresso fatale dei fatti economici, nel quale, se si dà retta al sig. Marx, bisogna cercare, con l’esclusione di tutte le altre considerazioni, la causa unica di tutti i fatti ineluttabili e morali che si producono nella storia, – sono molto disposto a pensare che questo atto di santa barbarie, o piuttosto questa lunga serie di atti barbari e di crimini che i primi cristiani, divinamente ispirati, commisero contro lo spirito umano, fu una delle cause principali dell’avvilimento intellettuale e morale e, di conseguenza, anche dell’asservimento politico e sociale, che riempirono questa lunga serie di secoli nefasti che si chiama Medioevo.

Siatene ben certi, se i primi cristiani non avessero distrutto le biblioteche, i musei ed i templi dell’antichità, noi oggi non saremmo condannati a combattere questo mucchio di assurdità orribili, vergognose, che ostruiscono ancora i cervelli al punto di farci dubitare, qualche volta, della possibilità di un avvenire più umano.

Seguendo sempre lo stesso ordine di proteste contro fatti che si sono compiuti nella storia e di cui, di conseguenza, anch io riconosco il carattere inevitabile, io mi fermo davanti allo splendore delle repubbliche italiane e davanti al magnifico risveglio del genio umano, all’epoca del Rinascimento. Quindi io vedo avvicinarsi due geni del male, tanto antichi quanto la storia, i due boa costrittori che hanno divorato, fin qui, tutto ciò che la storia ha prodotto di umano e di bello. Si chiamano la Chiesa e lo Stato, il Papato e l’Impero. Eterni rivali e inseparabili alleati, io li vedo riconciliarsi, abbracciarsi, e divorare e soffocare e schiacciare insieme la disgraziata e troppo bella Italia, condannarla a tre secoli di morte. Ebbene, trovo ancora tutto ciò molto naturale, logico, inevitabile, ma tuttavia abominevole, e io maledico, al tempo stesso, e il Papa e l’Imperatore.

Passiamo alla Francia. Dopo una lotta che è durata un secolo, il cattolicesimo, sostenuto dallo Stato, vi ha finalmente trionfato sul protestantesimo. Ebbene, ancora oggi, non si trovano in Francia dei politici o degli storici della scuola fatalista e che, dicendosi rivoluzionari considerano questa vittoria del cattolicesimo – vittoria sanguinosa ed inumana più che mai – come un vero trionfo per la Rivoluzione? Il cattolicesimo, pretendono, allora era lo Stato, la democrazia, mentre il protestantesimo rappresentava la rivolta dell’aristocrazia contro lo Stato e, di conseguenza, contro la democrazia. È con simili sofismi, d’altronde del tutto identici ai sofismi marxiani, che anch’essi, considerano i trionfi dello Stato come quelli della democrazia sociale,– è con queste assurdità così disgustose quanto rivoltanti che si corrompe lo spirito e il senso morale delle masse, abituandole a considerare i loro sfruttatori sanguinari, i loro nemici secolari, i loro tiranni, padroni servitori dello Stato, come degli organi, dei rappresentanti, degli eroi, dei servitori devoti della loro emancipazione. Quanto [Louis] Veuillot non è più sincero, più logico e più vero, constatando la profonda somiglianza che esiste fra la San Bartolomeo, ad esempio, e il massacro dei Comunardi da parte di quegli eccellenti cattolici di Versailles, diretti dalla Caterina dei Medici dei nostri giorni, il sig. Thiers? Ha mille volte ragione di dire che il protestantesimo allora, non come teologia calvinista, ma come protesta energica ed armata, rappresentava la rivolta, la libertà, l’umanità, la distruzione dello Stato; mentre il cattolicesimo era l’ordine pubblico, l’autorità, la legge divina, la salvezza dello Stato da parte della Chiesa e della Chiesa da parte dello Stato, la condanna della società umana ed un asservimento senza limiti e senza fine.

Riconoscendo l’inevitabilità del fatto compiuto, non esito a dire che il trionfo del cattolicesimo in Francia nel sedicesimo e diciassettesimo secolo, fu una grande disgrazia per tutta quanta l’umanità, e che la San Bartolomeo, così come la revoca dell’editto di Nantes, furono dei fatti tanto disastrosi per la stessa Francia, quanto lo è stata ultimamente la sconfitta e il massacro del popolo di Parigi. Mi è accaduto di sentire dei Francesi assai intelligenti e assai rispettabili spiegare quella sconfitta del protestantesimo in Francia, con la natura essenzialmente rivoluzionaria del popolo francese.

“Il protestantesimo, dicevano, non è stato che una mezza rivoluzione; noi volevamo la rivoluzione intera, è per questo che la nazione francese non ha voluto, non ha potuto, arrestarsi alla riforma. Essa ha preferito rimanere cattolica fino al momento in cui avrebbe potuto proclamare l’ateismo; ed è a causa di ciò che ha sopportato con una rassegnazione così perfetta, così cristiana, e gli errori della San Bartolomeo e la tirannia, non meno orribile, degli esecutori della revoca dell’editto di Nantes”.

Questi stimabili patrioti sembrano non voler considerare una cosa. Cioè che un popolo che, sotto qualsiasi pretesto, sopporta la tirannia, necessariamente a lungo andare perde l’abitudine salutare di rivoltarsi, e perfino lo stesso istinto di rivolta. Perde il sentimento della libertà, e la volontà, l’abitudine di essere libero e, una volta che un popolo ha perso tutto ciò, diviene necessariamente, non soltanto per le sue condizioni esteriori, ma interiormente, nell’essenza stessa del suo essere, un popolo schiavo. È perché il protestantesimo è stato vinto in Francia che il popolo francese ha perso, o piuttosto non ha acquistato, i costumi della libertà; è perché questa tradizione e questi costumi gli mancano, che egli non ha oggi ciò che noi chiamiamo la coscienza politica, ed è perché è privato di questa coscienza che tutte le rivoluzioni che ha fatto fin qui, non hanno nemmeno potuto dargli od assicurargli la libertà politica. Ad eccezione dei suoi grandi giorni rivoluzionari, che sono i suoi giorni di festa, il popolo francese resta, oggi come ieri, un popolo schiavo.

Passando ad un altro ordine di fatti, io giungo alla spartizione della Polonia. Qui sono molto felice di potermi, almeno una volta, incontrare con Marx, perché anch’egli, come me, come tutti, chiama questa spartizione un grande crimine. Soltanto, vorrei sapere come lui, essendosi dato un punto di vista fatalista e ottimista insieme, ha potuto permettersi, ha potuto motivare, una simile condanna di un grande fatto storico compiuto. Proudhon, che egli ama tanto, è stato più logico, più conseguente di lui. Volendo ad ogni costo assolvere la storia, ha scritto un opuscolo sfortunato, nel quale, dopo aver dimostrato con molta ragione che la Polonia nobiliare doveva perire, perché portava in sé i germi della dissoluzione, ha provato ad opporle l’Impero degli zar, come rappresentante della democrazia socialista trionfante.

Ciò era più che un errore, non esito a dirlo, malgrado il tenero rispetto che ho per la memoria di Proudhon, era un crimine: il crimine di un sofista che, trasportato dal bisogno della polemica, non ha temuto d’insultare una nazione martire, nel momento stesso in cui, rivoltatasi per la centesima volta contro i suoi orrendi tiranni russi e tedeschi, per la centesima volta cadeva abbattuta sotto i loro colpi.

Il crimine di Proudhon non fu di avere vittoriosamente dimostrato due verità: la prima, è che l’antica repubblica e l’antica libertà polacche erano istituzioni nobiliari fondate sull’asservimento e sullo sfruttamento di tutta la popolazione rurale; e la seconda, che l’insurrezione del 1863, ispirata, come tutte le insurrezioni precedenti, dal pensiero patriottico ed ardente, esclusivamente politico, ma per nulla socialista, di ristabilire il grande Stato polacco nei suoi antichi confini, doveva essere fatalmente un’impresa fallita. Era forse crudele dire queste verità ad una nazione sfortunata, nel momento stesso in cui soccombeva sotto il ferro stesso dei suoi assassini. Ma infine erano delle verità, e come tali potevano, dovevano essere dette.

Il crimine di Proudhon è consistito in questo: per opposizione ai patrioti polacchi, si è sforzato di rappresentare le truppe, i funzionari, gli sbirri dello zar come degli emancipatori socialisti dei contadini della Polonia, oppressi dai loro signori insorti. Proudhon, come la maggior parte dei suoi compatrioti, ignorava profondamente sia la Polonia che la Russia; ma in mancanza di conoscenza, il suo istinto di rivoluzionario avrebbe dovuto premunirlo contro una mostruosità che gli è valsa i ringraziamenti calorosi dei nostri patrioti panslavisti di Mosca, e ciò nel momento stesso in cui i loro compagni, i loro amici, i [Dimitrij] Miljutin, [Aleksej] Cerkasskij e molti altri procedevano alla conquista dei beni dei Polacchi insorti, non per darli ai contadini, ma per dividerli fra i funzionari e i generali russi, che fin da allora hanno fatto di tutto, come ci si doveva attendere, per fare detestare ancora di più il regime imperiale in Polonia. L’Impero russo emancipatore; ecco una assurdità rivoltante, che non fa certo onore né al giudizio né all’istinto rivoluzionario di Proudhon.

Ma per quale caso il sig. Marx si è lasciato trascinare, una volta, a fare dell’umanità a detrimento della conseguenza delle sue stesse idee? Ma la spiegazione di ciò non è affatto difficile da dare.

Il sig. Marx non è soltanto un socialista sapiente, è anche un politico molto abile e un ardente patriota. Come Bismarck, benché per vie un po’ diverse, e come molti altri suoi compatrioti, socialisti o non socialisti, vuole la costruzione di un grande Stato germanico, per la gloria del popolo tedesco e per la felicità, per la civilizzazione, volontaria o forzata, del mondo.

La realizzazione di questo scopo ha incontrato tre ostacoli:

  1. la rivalità fatale dei due più grandi Stati germanici, la Prussia e l’Austria;
  2. la potenza gelosa della Francia; e
  3. la potenza minacciosa dell’Impero di tutte le Russie, che si pone come protettore dei popoli slavi contro la civiltà tedesca.

I due primi ostacoli sono stati in parte superati con la politica, tanto abile quanto potente, di Bismarck. L’Austria, che ha avuto questo grande torto agli occhi dei patrioti chiaroveggenti della Germania, di non aver saputo germanizzare completamente i popoli slavi sottomessi al suo giogo, e di aver permesso, fin dal secondo quarto di questo secolo, al pensiero, alla lingua, alla passione, alla rivendicazione slave, di risvegliarsi nel suo seno, l’Austria è stata definitivamente vinta sotto i colpi degli eserciti vittoriosi della Prussia. Essa non si risolleverà mai, tutti lo sentono, tutti lo vedono. Invano essa cerca in se stessa dei nuovi equilibri, cercando di appoggiarsi, volta a volta, ora sui Magiari, ora sugli Slavi, ora, e di nuovo, sui suoi cari Tedeschi, che, sentendola perire, cominciano a girarle le spalle per adorare l’astro brillante che sorge a Berlino. L’Austria non ha soltanto cessato di essere un ostacolo per la Prussia, o, ciò che ora significa la stessa cosa, per la Germania; la sua esistenza separata è divenuta momentaneamente un bisogno perché, a Berlino, non ci si sente ancora abbastanza preparati né abbastanza forti per ereditare da essa, per prendere il pieno possesso di tutto ciò che possiede. Se essa fosse vinta ora, sarebbe necessario abbandonarne una buona parte all’Impero di Russia, e ciò non farebbe affatto il tornaconto del sig. Marx, né quello del sig. Bismarck.

Contrariamente a Marx, Bismarck si guarda bene dall’insultare e dal provocare lo zar. Ancora per qualche tempo avrà molto bisogno di lui e, di conseguenza, lontano dall’insultarlo, lo lusinga e si dice suo amico. Ma, in politica, l’amicizia non significa nulla, e Bismarck sa, così bene come Marx, che l’ora della grande lotta fra il pangermanesimo, rappresentato dalla Prussia o da tutta la Germania prussificata, e il panslavismo, personificato nello zar, non può mancare di scoccare. Ma prima che questa scocchi, bisogna finirla innanzitutto con la Francia.

La Francia è stata certamente vinta, crudelmente ferita, ma ancora non è affatto abbattuta. Essa non è per niente rovinata, e si trova appena indebolita. Checché se ne dica – sempre considerando tutte queste questioni dal punto di vista degli Stati, non da quello della Rivoluzione sociale, che avrà come prima conseguenza quella di spazzare via tutte le vecchie questioni, per far posto a questioni nuove e del tutto differenti. Dunque, checché se ne dica, la Francia non ha dimenticato l’ingiuria sanguinosa che ha ricevuto dalla Germania. Essa riprenderà fatalmente la sua rivincita, sia prendendo l’iniziativa di una terribile rivoluzione sociale che farà crollare insieme i due Stati della Francia e della Germania e di cui, probabilmente, la direzione non sarà affidata nelle mani di nessun dittatore, sia attraverso una lotta a morte di Stato contro Stato, attraverso un duello fra la Repubblica e l’Impero.

Bismarck lo sa molto bene, ed è per questo che ha ancora bisogno dell’alleanza dello zar e per questo dirige i suoi armamenti, ancora oggi, quasi esclusivamente contro la Francia. Ma, come ho già detto, nel suo pensiero, così come in quello di Marx, la lotta con la Russia, la guerra a morte fra l’imperatore di Germania e lo zar, che scoppi un po’ più tardi o un po’ più presto, è una cosa di cui è compresa l’inevitabilità e deciso il compimento. Soltanto Bismarck vuole prima finirla completamente con la Francia, perché, politico ancora più eccellente di Marx, si dice che se tutta la Germania concentrata nelle sue mani dovesse lottare contro la Russia e la Francia contemporaneamente, potrebbe anche soccombere. Egli teme che al gabinetto di San Pietroburgo lo si comprenda troppo presto, e che, avendolo compreso, lo zar si rivolti contro di lui allorché egli attaccherà la Francia. Dunque, più saggio sotto questo rapporto di Marx, si guarda bene dall’indisporre lo zar contro di lui, e si dà tutte le pene immaginabili per disarmare le sue gelosie ed i suoi timori. Cerca di guadagnare la sua fiducia e di assicurarsi la sua connivenza lasciandogli sperare, come ricompensa della sua neutralità e, naturalmente, ancora di più, della sua cooperazione attiva, per quanto possibile, una grande estensione di territorio a detrimento sia della Turchia, sia dell’Austria.

È evidente che Bismarck darà alla Russia quanto meno possibile. Si guarderà bene dall’aumentare in un modo troppo reale la potenza di un impero contro il quale si prepara ad entrare in conflitto più tardi. Tuttavia sarà ben costretto a lasciargli fare qualche conquista seria, ma, dato che la Germania indubbiamente ne farà, nello stesso tempo, di ancora più serie, e dato, secondo tutte le probabilità, il governo e l’amministrazione germanica, incomparabilmente più capaci e meglio diretti del governo e dell’amministrazione russi, sapranno trarre più vantaggi dalle loro conquiste che non i Russi, Bismarck si dice che, alla fine dei conti, e conservata ogni proporzione, la potenza della Germania, paragonata a quella della Russia, diverrà ancora più grande, e che, rimanendo allora la Russia il solo nemico, alla Germania sarà molto più facile vincerla e schiacciarla.

Bisogna essere ciechi per non vedere che questa è, questa deve essere, la politica di Bismarck, sia di fronte alla Francia che di fronte alla Russia. Una volta dati i rapporti attuali di questi tre grandi Stati, la Francia, la Germania e la Russia, ciò risulta con la conseguenza rigorosa di una deduzione matematica. Ed è esattamente perché Bismarck lo comprende, che è un grande uomo di Stato. La sua politica è quella del presente, quella di Marx, che si considera per lo meno come il suo successore e il suo continuatore, è quella dell’avvenire. E quando dico che Marx si considera come il continuatore di Bismarck, sono lontano dal calunniare Marx. Se non si considerasse come tale, non avrebbe permesso al confidente di tutti i suoi pensieri, Engels, di scrivere che Bismarck serve la causa della Rivoluzione sociale. La serve ora a modo suo, e Marx la servirà, più tardi, in un’altra maniera. Ecco in che senso sarà, più tardi, il continuatore, come oggi è l’ammiratore, della politica di Bismarck.

Ora, esaminiamo il carattere particolare della politica di Marx. E, prima, constatiamo i punti essenziali sui quali si separa dalla politica bismarckiana. Il punto principale, e si potrebbe dire unico, è questo: Marx è democratico, socialista autoritario, e repubblicano; Bismarck è un Junker pomeraniano, aristocratico e monarchico ad ogni costo. La differenza è dunque molto grande, molto seria e, da entrambe le parti, è ugualmente sincera. Sotto questo rapporto non vi è punto d’intesa, né di riconciliazione possibile, tra Bismarck e Marx. Anche al di là di molti pegni irrecusabili che Marx, durante tutta la sua vita, ha dato alla causa della democrazia socialista, la sua stessa posizione e la sua ambizione ne sono una garanzia certa. In una monarchia, per quanto liberale sia, o anche in una repubblica conservatrice come quella di Thiers, non vi può essere alcun posto, alcun ruolo, per Marx, a maggior ragione non c’è in un Impero prusso-germanico fondato da Bismarck, con un imperatore spauracchio, caporale e devoto per capo, e con tutti i baroni e i burocrati della Germania per guardiani. Prima di arrivare al potere, Marx dovrà spazzare via tutto ciò. Dunque, egli è forzatamente rivoluzionario.

Ecco ciò che separa Marx da Bismarck: è la forma e le condizioni del governo. Uno è aristocratico e monarchico ad ogni costo; l’altro è democratico, repubblicano ad ogni costo, e, per di più, democratico socialista e repubblicano socialista.

Vediamo ora ciò che li unisce. È il culto dello Stato a qualsiasi costo. Non ho bisogno di provarlo per Bismarck, le sue prove sono i fatti. Egli è, dalla testa ai piedi, un uomo di Stato, e niente altro che un uomo di Stato. Ma io non credo di aver bisogno di sforzi troppo grandi per dimostrare che la stessa cosa vale per Marx. Egli ama a tal punto il governo, che ne ha voluto costituire uno anche nell’Associazione Internazionale dei Lavoratori; e adora talmente il potere che ha voluto, che pretende ancora oggi di imporci la sua dittatura. Mi sembra che ciò sia sufficiente per caratterizzare le sue inclinazioni personali. Ma il suo programma socialista e politico ne è l’espressione molto fedele. Lo scopo supremo di tutti i suoi sforzi, come ce lo rivelano gli statuti fondamentali del suo partito, in Germania, è la costruzione di un grande Stato popolare (Volksstaat).

Ma chi dice Stato, dice necessariamente uno Stato particolare, limitato, comprendente senza dubbio, se è molto grande, molte popolazioni e paesi differenti, ma che ne esclude ancora di più. Perché, a meno di sognare lo Stato universale, come avevano fatto Napoleone e Carlo V, o come il papato aveva sognato la Chiesa universale, Marx, malgrado tutta l’ambizione internazionale che lo divora oggi, dovrà bene, quando l’ora della realizzazione dei suoi sogni sarà scoccata per lui – se suonerà mai – accontentarsi di governare un solo Stato, e non più Stati alla volta. Di conseguenza, chi dice Stato dice uno Stato, e chi dice uno Stato afferma con ciò l’esistenza di più Stati, e chi dice più Stati dice inevitabilmente concorrenza, invidie, guerra senza tregua e senza fine. La più semplice logica come anche tutta la storia lo attestano.

È nella natura dello Stato rompere la solidarietà umana e negare, in qualche modo, l’umanità. Lo Stato non può conservarsi come tale nella sua integrità e in tutta la sua potenza, se non quando si pone come lo scopo supremo, assoluto, almeno per i suoi stessi cittadini, o, per parlare più francamente, per i suoi propri sudditi, non potendosi imporre come tale ai sudditi degli altri Stati. Da ciò risulta inevitabilmente, una rottura con la morale umana in quanto universale, con la ragione universale, a causa della nascita della morale dello Stato e di una ragione di Stato. Il principio della morale politica o di Stato, è molto semplice. Essendo lo Stato lo scopo supremo, tutto ciò che è favorevole allo sviluppo della sua potenza è buono; tutto ciò che gli è contrario, fosse anche la cosa più umana del mondo, è cattivo. Questa morale si chiama patriottismo. L’Internazionale, come abbiamo visto, è la negazione del patriottismo e, di conseguenza, la negazione dello Stato. Dunque, se Marx e i suoi amici del Partito della democrazia socialista tedesca, potessero riuscire ad introdurre il principio dello Stato nel nostro programma, ucciderebbero l’Internazionale.

Lo Stato, per la sua conservazione, deve necessariamente essere potente al di fuori; ma se lo è al di fuori, esso lo sarà infallibilmente all’interno. Ogni Stato, dovendo lasciarsi ispirare e dirigere da una morale particolare, conforme alle condizioni particolari della sua esistenza, da una morale che è una restrizione e, di conseguenza, una negazione, della morale umana e universale, dovrà vigilare affinché tutti i suoi sudditi, nei loro pensieri e, soprattutto, nei loro atti, non s’ispirino che a princìpi di quella morale patriottica o particolare, e che restino sordi agli insegnamenti della morale meramente o universalmente umana. Da qui risulta la necessità di una censura di Stato; una libertà troppo grande del pensiero e delle opinioni essendo, come pensa Marx, d’altronde con molta ragione, dal suo punto di vista eminentemente politico, incompatibile con quella unanimità di adesione richiesta dalla sicurezza dello Stato. Che tale sia, in realtà, il pensiero di Marx, ci è sufficientemente provato dai tentativi che ha fatto per introdurre, sotto dei pretesti plausibili, mascherata, la censura nell’Internazionale.

Ma qualunque sia la vigilanza di questa censura, quand’anche lo Stato prendesse esclusivamente nelle sue mani tutta l’educazione e tutta l’istruzione popolare, come Mazzini ha voluto, e come oggi vuole il sig. Marx, lo Stato non potrebbe mai essere sicuro che non scivolino dei pensieri proibiti e pericolosi, di contrabbando, nella coscienza delle popolazioni che governa. Il frutto difeso ha molta attrattiva per gli uomini, e il diavolo della rivolta, questo eterno nemico dello Stato, si risveglia così facilmente nei loro cuori, quando non siano sufficientemente abbrutiti, che né questa educazione, né questa istruzione, né questa stessa censura, garantiscono sufficientemente la tranquillità dello Stato. Gli serve ancora una polizia, degli agenti devoti che sorveglino e dirigano, segretamente e senza che ciò appaia, il flusso dell’opinione e delle passioni popolari. Abbiamo visto che lo stesso sig. Marx è talmente convinto di questa necessità, che ha creduto bene di dover riempire di suoi agenti segreti tutte le regioni dell’Internazionale e, soprattutto, l’Italia, la Francia e la Spagna.

Infine, per quanto perfetta sia, dal punto di vista della conservazione dello Stato, l’organizzazione dell’educazione e dell’istruzione popolare, della censura e della polizia, lo Stato non può essere sicuro della sua esistenza finché non ha, per difenderla contro i nemici dell’interno, contro il malcontento delle popolazioni, una forza armata. Lo Stato è governo dall’alto in basso di un’immensa quantità di uomini molto diversi dal punto di vista del grado della loro cultura, della natura dei paesi o delle località in cui abitano, delle loro posizioni, delle loro occupazioni, dei loro interessi e delle loro aspirazioni, da parte di una minoranza qualsiasi; questa minoranza, fosse anche mille volte eletta dal suffragio universale e controllata nei suoi atti da delle istituzioni popolari, a meno che non sia dotata dell’onniscienza, dell’onnipresenza e dell’onnipotenza che i teologi attribuivano al loro Dio, è impossibile che essa possa conoscere, prevedere i bisogni, e soddisfare, con una uguale giustizia, gli interessi più legittimi, i più palesi di tutti. Ci saranno sempre dei malcontenti, dato che ci saranno sempre dei sacrificati.

Del resto lo Stato, come la Chiesa, per sua stessa natura, è un grande sacrificatore di uomini vivi. È un essere arbitrario, nel seno del quale tutti gli interessi positivi, viventi, sia individuali che locali, delle popolazioni, vengono a misurarsi, ad urtarsi, a distruggersi a vicenda, ad immergersi in quella astrazione che si chiama interesse comune, bene pubblico, salute pubblica, e dove tutte le volontà reali si annullano in quell’altra astrazione che porta il nome di volontà del popolo. Da ciò risulta che questa sedicente volontà del popolo non è mai altra cosa che il sacrificio e la negazione di tutte le volontà reali delle popolazioni; come anche, questo sedicente bene pubblico, non è altro che il sacrificio dei loro interessi. Ma, affinché questa astrazione onnivora possa imporsi a milioni di uomini, occorre che sia rappresentata e sostenuta da un essere reale, da una qualunque forza vivente. Ebbene, questo essere, questa forza, sono sempre esistiti. Nella Chiesa, si chiama clero e, nello Stato, classe dominante o governante.

Nello Stato popolare del sig. Marx, ci dicono, non ci sarà affatto classe privilegiata. Tutti saranno uguali, non soltanto dal punto di vista giuridico e politico, ma anche dal punto di vista economico. Almeno lo si promette, benché dubiti molto che, con la piega che ha preso e nella strada che vuole seguire, possa mantenere mai la sua promessa. Non ci saranno dunque più classi, ma un governo, e, notatelo bene, un governo eccessivamente complicato, che non si accontenterà di governare e di amministrare politicamente le masse, come lo fanno oggi tutti i governi, ma che, in più, le amministrerà economicamente, concentrando nelle sue mani la produzione e la giusta ripartizione delle ricchezze, la coltivazione delle terre, la costruzione e lo sviluppo delle fabbriche, l’organizzazione e la direzione del commercio, infine, la destinazione del capitale alla produzione tramite l’unico banchiere, lo Stato. Tutto ciò esigerà una scienza immensa e molte teste traboccanti di cervello in questo governo. Sarà il regno dell’intelligenza scientifica, il più aristocratico, il più dispotico, il più arrogante e il più sprezzante di tutti i regimi. Ci sarà una nuova classe, una nuova gerarchia di sapienti reali e fittizi, e il mondo sarà diviso in una minoranza, dominante in nome della scienza, ed un’immensa maggioranza ignorante. E allora guai alla massa degli ignoranti!una nuova gerarchia di sapienti reali e fittizi, e il mondo sarà diviso in una minoranza, dominante in nome della scienza, ed un’immensa maggioranza ignorante. E allora guai alla massa degli ignoranti!una nuova gerarchia di sapienti reali e fittizi, e il mondo sarà diviso in una minoranza, dominante in nome della scienza, ed un’immensa maggioranza ignorante. E allora guai alla massa degli ignoranti!

Un simile regime non mancherà di sollevare dei malcontenti molto seri in questa massa, e per contenerla, il governo illuminatore ed emancipatore di Marx, avrà bisogno di una forza armata non meno seria. Perché il governo deve essere molto forte, dice Engels, per mantenere all’ordine quei milioni di analfabeti il cui sollevamento brutale potrebbe tutto distruggere e tutto rovesciare, anche un governo diretto da delle teste traboccanti di cervello.

Vedete bene che dietro tutte le frasi e tutte le promesse democratiche e socialiste del programma di Marx, si trova, nel suo Stato, tutto ciò che costituisce la natura dispotica e brutale propria di tutti gli Stati, qualsiasi sia la forma del loro governo, e che, alla fine dei conti, lo Stato popolare, tanto raccomandato da Marx, e lo Stato aristocratico-monarchico, mantenuto con tanta abilità quanta potenza, da Bismarck, s’identificano completamente per la natura del loro scopo sia interno che esterno. All’esterno, è lo stesso spiegamento di forza militare, cioè la conquista; e, all’interno, è lo stesso impiego di quella forza armata, ultimo argomento di tutti i poteri politici minacciati, contro le masse che, stanche di credere, di sperare, di rassegnarsi e di obbedire sempre, si rivoltano.

Lasciamo ora le considerazioni generali sullo Stato, ed entriamo più dentro alla politica reale, nazionale di Marx. Come Bismarck, egli è un patriota tedesco. Egli vuole la grandezza e la potenza della Germania come Stato. Nessuno, del resto, potrà fargli una colpa di amare il suo paese e il suo popolo; e, dato che è profondamente convinto che Io Stato è la condizione sine qua non della prosperità dell’uno e dell’emancipazione dell’altro, si troverà naturale che egli desideri che la Germania si organizzi in Stato e, necessariamente, in uno Stato molto grande e molto forte, poiché gli Stati deboli e piccoli corrono sempre il rischio di vedersi inghiottire. Di conseguenza Marx, come patriota perspicace e ardente, deve volere la potenza e la grandezza della Germania come Stato.

Ma, da un altro lato, Marx è un socialista celebre, e per di più uno degli iniziatori principali dell’Internazionale. Egli non si accontenta di lavorare per la sola emancipazione del proletariato della Germania; ci tiene, e considera come suo dovere, lavorare, nello stesso tempo, per l’emancipazione del proletariato di tutti gli altri paesi; ciò che fa sì che si trovi in piena contraddizione con se stesso. Come patriota tedesco, vuole la grandezza e la potenza, cioè la dominazione della Germania; ma come socialista dell’Internazionale, deve volere l’emancipazione di tutti i popoli del mondo. Come risolvere questa contraddizione?

Non vi è che un solo mezzo, cioè di proclamare, dopo essersene persuaso lui stesso, s’intende, che la grandezza e la potenza della Germania come Stato è la condizione suprema dell’emancipazione di tutti, che il trionfo nazionale e politico della Germania, è il trionfo dell’umanità e che, tutto ciò che è contrario all’avvento di questa nuova grande potenza omnivora, è nemico dell’umanità. Una volta creata questa convinzione, non è soltanto permesso, ma è comandato dalla più santa delle cause, di servirsi dell’Internazionale, ivi comprese tutte le Federazioni degli altri paesi, come un mezzo molto potente, molto comodo e, soprattutto, molto popolare, per l’edificazione del grande Stato pangermanico. È precisamente ciò che Marx aveva tentato di fare, sia con le deliberazioni della Conferenza che aveva riunito nel settembre 1871 a Londra, come con le risoluzioni votate dai suoi amici tedeschi e francesi al Congresso dell’Aia. Se non ci è riuscito meglio non è, certamente, per mancanza di sforzi molto grandi, né di molta abilità da parte sua ma, probabilmente, perché l’idea fondamentale che lo ispira è falsa e la sua realizzazione impossibile.

Questa identificazione della causa dell’umanità con quella della grande patria germanica non è affatto un’idea assolutamente nuova. Essa è stata esplicitamente espressa, per la prima volta, se non mi sbaglio, dal grande filosofo e patriota tedesco Fichte, in una serie di letture che ha fatto a Berlino, dopo la battaglia di Jena, per così dire sotto le baionette dei soldati francesi che erano di stanza nella capitale della Prussia, e che, inebriati da tutte le loro vittorie e ignoranti, come si conviene a dei bravi generali, ufficiali e soldati della Francia, si curavano poco di ciò che poteva dire un professore tedesco.

Fichte era stato scacciato poco tempo prima dall’università di Jena, sotto il governo molto illuminato del duca di Saxe-Weimar, amico di Goethe, a causa della sua fede rivoluzionaria ed atea. Ebbene, fu a quest’uomo che Stein e Hardenberg, i due ministri nuovi del re Federico Guglielmo III di Prussia, in un momento in cui la Prussia, conquistata completamente e non respirando più che per grazia del suo vincitore, si era vista immersa in uno sconforto infinitamente più opprimente di quello in cui si è trovata la Francia tra il 1870 e il 1871 – fu a quest’uomo che il governo della Prussia, ben più felicemente ispirato di quanto non lo fosse stato quello di Thiers, fece ricorso per rimontare, per rifare l’energia morale, della gioventù prussiana e tedesca.

Cosa sorprendente e degna di restare nella memoria delle nazioni! La vera grandezza della Prussia, la sua nuova potenza datano dalla catastrofe di Jena. È vero che cause anteriori, sia prussiane che tedesche, l’avevano preparata. Tra le cause esclusivamente prussiane, bisogna mettere in primo piano la politica perseverante e tortuosa di quella casa di Brandeburgo che, per tre secoli di seguito, di padre in figlio, ha sempre perseguito un solo scopo: quello della creazione di una grande potenza tedesca, fondata in parte sulla distruzione e in parte sull’asservimento, delle popolazioni slave che erano i primitivi abitanti di tutto l’attuale regno di Prussia, e di cui una parte ha conservato ancora i loro tratti, i loro costumi e persino la loro lingua slava, malgrado tutti gli sforzi che si sono fatti per germanizzarli. Da prima vassalli della corona di Polonia, i duchi di Prussia finirono per spodestare il loro antico sovrano. Prima si resero indipendenti, poi cominciarono a staccare una a una le sue province, infine, si proclamarono re, e, per mano del loro potente successore, Federico il Grande, di concerto con la Russia e l’Austria, diedero il colpo di grazia a questa disgraziata Polonia, già loro sovrana.

A meno di dar prova di profonda ignoranza, nessuno potrà contestare che tutta la potenza politica della Prussia è stata fondata esclusivamente a detrimento, e sulla completa rovina, della Polonia. Questa potenza data la sua nascita realmente dalla spartizione di quel regno-repubblica, e dalla conquista della Slesia, provincia una volta completamente e oggi ancora in gran parte polacca. È giusto ricordare questa origine, che pesa e che peserà sempre, come una fatalità, sulla potenza prussiana, e anche sulla potenza tedesca, in quanto la potenza tedesca sarà prussiana.

Ma questa nuova potenza, creata definitivamente da Federico II, non era ancora, per così dire, che una potenza tutta esteriore, tutta artificiale, meccanica, o soltanto politica. Le mancava l’anima, la sanzione nazionale. Per la maggior parte slava nelle campagne, essa non era tedesca che nelle città, nella classe borghese, nella nobiltà, nella sua burocrazia, nei suoi professori, e nel suo clero protestante, infine, alla corte, fino al momento in cui Federico II ebbe trasformato quest’ultima in una specie di corte francese, che scimmiottava, alla maniera dei Tedeschi, cioè con una grazia un po’ pesante, lo spirito, le mode e le maniere eleganti, dei Francesi.

Per farsi un’idea giusta di ciò che era la nazionalità tedesca, rappresentata dalle classi che ho appena elencato, non soltanto in Prussia, ma in tutta la Germania, non c’è niente di meglio che leggere la Storia del diciottesimo secolo scritta dal grande storico tedesco [Julius von] Schlosser. Non ci si può immaginare niente di più abietto, di più stupido, di più vile. Erano la povertà, l’aridità, la pesantezza pedantesca di uno spirito privato di movimento e di vita, unite ad una vigliaccheria di cuore senza limiti.

Cosa strana e ugualmente degna di non essere dimenticata dai popoli! Il protestantesimo, che, se non aveva creato, aveva almeno stimolato e accompagnato, il movimento emancipatore dei popoli in tutti gli altri paesi, in Svizzera, in Inghilterra, in Olanda, in Svezia e, più tardi, in America, anche in Francia finché non vi fu vinto, solo in Germania aveva prodotto un effetto tutto contrario. Qui esso divenne la religione del dispotismo. Non bisogna forse concluderne che i Tedeschi sono un popolo veramente predestinato alla creazione di uno Stato molto potente e molto grande, dato che l’obbedienza e la rassegnazione, queste prime virtù di un suddito e queste supreme condizioni dello Stato, si trovano così profondamente radicate nei loro cuori; al punto che la Riforma, una rivoluzione religiosa che aveva scrollato il torpore di tante altre nazioni e che aveva risvegliato nel loro seno il principio di ogni libertà, la rivolta, non aveva prodotto, in Germania, altro effetto che rinforzare il sentimento e la pratica della disciplina?

Nella prima parte di questo scritto [L’Impero knut-germanico e la rivoluzione sociale] ho mostrato come la nazione tedesca, assorbita pietosamente nei suoi sogni, aveva passato la sua adolescenza e la sua giovinezza, tutto il lungo periodo del medio evo, nella più completa e tranquilla schiavitù. Ho constatato, in seguito, come, verso la fine del quindicesimo secolo, aveva fatto segno di risvegliarsi. All’inizio del sedicesimo secolo, essa ebbe, in effetti, qualche anno di slancio magnifico: Lutero, Ulrich von Hutten, Franz von Sickingen, Thomas Müntzer, e altri ancora, sembrarono volerla trascinare su una strada sconosciuta e ricca di pensiero, di passione e di azione, sulla via della libertà. Elettrizzate dalle loro ardenti prediche, frementi di speranze e di fede, masse di contadini, spezzando le loro antiche catene, insorsero al grido di Guerra ai castelli e pace alle capanne! Saccheggiarono e distrussero i castelli, e impiccarono o massacrarono i signori e i preti.

“Era la reazione”, dice Lassalle e ripetono, con lui, tutti i marxiani. Era la reazione, dicono, perché la rivoluzione, che non è tale se non quando è ben civile, ben scientifica, cioè ben borghese, non può scaturire dalla barbarie delle campagne. Il contadino non può fare che della reazione, da ciò risulta che, il primo dovere della rivoluzione, è d’impedire, di reprimere a tutto spiano, qualunque movimento di contadini. Docili a questo precetto, i borghesi radicali della Germania, l’hanno in effetti represso nel 1830, come anche nel 1818, ed è, senza dubbio, a causa di ciò che godono oggi di una così grande libertà. Nel 1525, il trionfo di questa strana “rivoluzione”, tutta tedesca, su questa “reazione” contadina, fu completo. I contadini, abbandonati e traditi dai borghesi delle città, furono disfatti dai nobili e massacrati e torturati a decine di migliaia, dopo di che, tutta la Germania ritornò nella calma. Vi restò immersa per più di tre secoli, come l’Italia, con la differenza che l’Italia era stata soffocata dall’alleanza dell’imperatore e del papa, mentre la Germania era stata travolta volontariamente sotto il peso della sua stessa rivoluzione.

Fu precisamente allora che iniziò a svilupparsi in tutto il suo strano splendore, in Germania, la crescente potenza sedicente progressista e rivoluzionaria dello Stato militare, burocratico e tranquillamente dispotico. I prìncipi sovrani rimpiazzarono il papa e si dichiararono capi delle loro Chiese nazionali, con gran soddisfazione di un clero di cui il servilismo abietto superò tutto ciò che di simile si era visto fino a quel momento anche in Germania. Essi divennero, in qualche modo, gli Dèi del loro Stato, Dèi molto grossolani, ignoranti come si conviene a dei prìncipi, stupidamente infatuati della loro volontà sovrana ed eccessivamente depravati; sotto di loro una nobiltà piattamente cortigiana, adattata a tutti i servizi, ricercatrice di fortuna, di grazie e di padroni, e non domandante niente di meglio che di vendere le sue donne e i suoi figli al primo piccolo sultano venuto. I contadini, schiacciati, decimati e abbrutiti triplicamente e dalla sconfitta, e dalla miseria, e dagli insegnamenti dei loro pastori protestanti, predicatori della schiavitù cristiana, non si agitarono più, se non per portare, curvati e tremanti, i frutti del loro lavoro al castello. La borghesia e i corpi di mestiere ripresero tranquillamente le loro occupazioni e le loro laboriose abitudini quotidiane, non guardando, per distrarsi e per consolarsi, che alla lettura della Bibbia, e pagando tutte le imposte che si chiesero senza resistenza, senza protesta, senza mormorio.

La Germania era così definitivamente divenuta, e restò per tre secoli interminabili, il paradiso dei despoti, la terra della tranquillità, della sottomissione, della rassegnazione, e della mediocrità più desolante, sì, desolante sotto tutti gli aspetti, perché anche il movimento economico, quello dell’industria e del commercio, era considerevolmente rallentato, in paragone all’energia e all’attività che aveva dispiegato, dopo la nascita della Lega Anseatica, fra il tredicesimo e il quindicesimo secolo. Dopo la Riforma, questo movimento, per così dire, si gelò, in modo che, la Germania, restò ben lontana, non soltanto dietro i paesi protestanti come l’Inghilterra e l’Olanda, ma anche dietro la Francia cattolica. Si può anche dire che non è che a partire dal primo quarto del nostro secolo che ha iniziato a partecipare al grande movimento dell’industria e del commercio mondiale.

Anche oggi, essa non occupa, evidentemente, che il quarto o anche il quinto posto, dopo l’Inghilterra, la Francia, gli Stati Uniti, e il piccolissimo, ma molto industrioso, Belgio, e, sotto l’aspetto del commercio marittimo almeno, è anche dopo l’Olanda.

Dunque, per tre secoli, anche sotto l’aspetto economico, restò quasi stagnante, così povera di spirito come di ricchezze materiali. Ne era risultata una specie di virtù relativa, o piuttosto, negativa, conosciuta sotto il nome proverbiale di onestà tedesca; la si era attribuita, a torto, non so quale forza morale, inerente, si credeva, al carattere della nazione, mentre, questa virtù, non era che il prodotto naturale di quella doppia povertà, della borsa e dello spirito. E, per convincersene, non vi è che da guardare con quale rapidità quell’onestà tedesca, tanto vantata, si evapori oggi sotto il soffio depravatore e potente della grande speculazione bancaria, delle grandi transazioni commerciali e della grande industria.

Questa onestà non era, dunque, una forza morale, ma il prodotto della mediocrità, sia materiale che intellettuale. Era l’abitudine dei poveri a vivere di poco e a non conoscere che pochissimi bisogni, a trascinare tutta la loro esistenza al di fuori delle grandi passioni, dei grandi godimenti e delle grandi tentazioni, sia del pensiero che della vita. Accontentarsi di poco, ecco in che cosa consistette questa virtù – una virtù negativa quant’altre mai – e non cercare dei compensi e delle consolazioni che nella contemplazione religiosa e nella lettura della Bibbia, che inebriava a buon mercato questi buoni borghesi protestanti con la comunione del Santo Spirito e con la comunione diretta con Dio, attraverso il Cristo. Si capisce come, un simile regime, abbia dovuto formare dei sudditi molto appropriati ai bisogni del dispotismo.

Questo fu, dunque, in questo strano paese, l’effetto della doppia rivoluzione, che segnò la transizione dal Medioevo all’età moderna; della rivoluzione economica che, sulle rovine della proprietà feudale, doveva fondare la nuova potenza del capitale e della rivoluzione religiosa, che aveva risvegliato la vita politica in tutti gli altri paesi. In Germania, questo effetto può essere riassunto con queste parole: impoverimento e torpore materiale, prostrazione intellettuale e morale.

Alcuni scrittori tedeschi, fra gli altri Schiller, hanno cercato di spiegarsi questo fatto, così doloroso per il loro patriottismo, attribuendolo esclusivamente agli immensi disastri causati in Germania dalla Guerra dei Trent’anni, di cui essa fu, nello stesso tempo, il teatro e la vittima. Ma gli altri paesi furono realmente risparmiati? L’Olanda non fu forse altrettanto devastata da Filippo II, l’Inghilterra dagli Stuart, e la Francia dalla Lega cattolica e dalla monarchia assoluta, dopo l’inizio delle guerre di religione fino al proclama dell’editto di Nantes? Ebbene, tutto ciò non ha impedito all’Olanda di fondare la sua libertà e la sua prosperità materiali; all’Inghilterra di avere i suoi Shakespeare, i suoi Milton, di rovesciare il dispotismo degli Stuart, e di mettere in scacco il dispotismo tedesco apportato dalla casa di Hannover. Anche in Francia, malgrado il trionfo del cattolicesimo, malgrado l’annientamento e l’espulsione definitivi delle popolazioni protestanti, le più industriose e più ricche del paese, malgrado, infine, la costituzione di una monarchia assoluta in modo orientale, con tutto lo sfoggio insolente del suo Re Sole che riassume nella sua persona tutto lo Stato, – in Francia, dopo Rabelais, Montaigne e Descartes fino a Voltaire e Diderot, attraverso la grande letteratura del XVII secolo e del XVIII secolo, voi trovate una corrente, non interrotta e sempre crescente, di libero pensiero, che ispira spiriti nobili, fonda a Parigi dei saloni letterari e filosofici, delle Accademie di scienze e di lettere, crea un’opinione pubblica opposta, sia al cattolicesimo, al dogma cristiano, al Padrone celeste, sia al dispotismo reale, e che, sviluppandosi prima di nascosto, diffondendosi a poco a poco, attraverso mille filiere sotterranee ed invisibili, in tutte le classi della società, finì con l’abbracciare tutta quanta la nazione, portando alla Rivoluzione e trascinando alla ghigliottina il padrone terrestre.

Ma in Germania niente, niente del tutto. Dalla morte di Lutero, fino all’apparizione dei primi scritti di Lessing, cioè per due secoli di seguito, interruzione completa del pensiero, di ogni movimento intellettuale e della vita morale; a meno che, per pietà verso tanta miseria, non si vogliano considerare come segni di sviluppo intellettuale e morale, i vagiti malaticci e sentimentali del pietismo, oppure le stravaganze teosofiche di Jacob Böhme. La stessa lingua tedesca, di cui si era così magnificamente servito Lutero, era ricaduta in disuso: era la lingua della Bibbia, dei cantici e dei trattati religiosi; la scienza disdegnava di servirsene, e non vi era propriamente della letteratura. Leibniz, uno dei più notevoli spiriti del XVII secolo, non scriveva che in francese o in latino. Nelle università, le scienze non si insegnavano che in latino.

E quali scienze! Che strani professori! La teologia ortodossa luterana vi dominava ovunque. Dopo di essa veniva il diritto, l’una e l’altro predicando il potere assoluto del sovrano e il dovere, non meno assoluto, dell’obbedienza passiva dei sudditi. Era il culto teorico dello Stato, base e condizione preliminare del culto pratico che aveva fatto della Germania ciò che era: la patria dei despoti e quella degli schiavi volontari, dei lacchè. I professori, pedanti, ridicoli, assurdi, vili ed ignobili come lacchè, in ginocchio dinnanzi ad ogni autorità, anticipatamente venduti e votati corpo e anima al servizio di tutti i poteri, che essi adulavano in versi latini e in prosa e, nello stesso tempo, arroganti, gelosi, molesti, si ingiuriavano, si calunniavano, si denunciavano a vicenda e, spingendo questa guerra incivile di pedanti, come nella commedia di Molière, fino, qualche volta, a prendersi per i capelli – questi furono i nobili istruttori ed educatori della gioventù tedesca durante questi due secoli.

A fianco delle due scienze principali, la teologia e il diritto, ve ne era una terza, che insegnava, in qualche modo, la teoria della loro applicazione alla vita pratica: era la scienza politica, la scienza dello Stato o, più precisamente, la scienza del servizio dello Stato. Essa abbracciava l’amministrazione, le finanze e la diplomazia, e doveva, come le altre due, ma in una maniera ancora più specifica, [formare] i burocrati, i fedeli senatori dello Stato. Perché bisogna osservare che, a quell’epoca, in Germania, le parole “patria”, “nazione”, erano completamente ignorate. Non vi era che lo Stato o, piuttosto, un’infinità di Stati, grandi, medi, piccoli e molto piccoli. Non ve ne era precisamente che uno solo veramente grande, era quello dell’Austria, che era alla testa di tutta la Germania come capo dell’Impero, ma che non aveva né la potenza, né la volontà di mettere un freno all’arbitrio dispotico dei sovrani medi e piccoli nei loro rispettivi Stati. Per il suddito e a maggior ragione per il funzionario la Germania non esisteva: non conosceva che lo Stato grande, medio o piccolo che serviva e che, per lui, si riassumeva nella persona del principe.

Tutta la scienza del burocrate consisteva in questo: mantenere l’ordine pubblico e l’obbedienza dei sudditi, e carpire loro tanto più denaro possibile per il tesoro del sovrano, senza rovinarli completamente e senza spingerli, per la disperazione, alla rivolta; pericolo che, d’altronde, non era eccessivamente [grande], in Germania, che, almeno allora, fu, se non oggi, il classico paese della sottomissione, della pazienza e della rassegnazione, così come dell’onestà.

Ci si può immaginare quale dovette essere lo spirito di questi onesti filistei della burocrazia tedesca, che, non riconoscendo, dopo Dio, altro oggetto di culto che questa terribile astrazione dello Stato, personificata nel principe, gli immolavano coscienziosamente, spietatamente, tutto. Nuovo Bruto, con la cuffia di cotone e la sua pipa che pendeva dalla bocca, ogni funzionario tedesco era capace di sacrificare i suoi stessi figli a ciò che egli chiamava, egli, la ragione, la giustizia, il diritto supremo dello Stato.

A fianco di questi onesti “filistei” della burocrazia, vi erano i compagni di bagordi del reggente, i furfanti patentati e titolati della diplomazia. La burocrazia, si può dire, è nata e si è sviluppata, principalmente, in Germania, vi è divenuta contemporaneamente una scienza, un’arte, un culto. Ma è l’Italia che reclama l’onore, molto equivoco, di aver dato i natali alla diplomazia. Divisa in una serie di piccole repubbliche, nel Medioevo, tutte indipendenti l’una dall’altra, e in eterna lotta le une contro le altre; minacciata da un altro lato dalle periodiche invasioni della Germania, della Francia, della Spagna, e dal permanente tradimento dei papi, è l’Italia che ha creato, sviluppato e coltivato, nel suo seno, quest’arte infernale della diplomazia, così ben descritta da Machiavelli, e che, dopo aver formato e illustrato i grandi furfanti storici, conosciuti sotto i nomi dei Medici e dei Borgia, ha finito per demoralizzare e per disorganizzare così completamente questa nobile nazione, che divenne, alla lunga, incapace di resistere alla doppia tirannia degli imperatori e dei papi.

Le stesse ragioni che l’avevano fatta nascere in Italia dovevano farla prosperare in Germania, dove ogni piccola corte formava un focolaio permanente di complotti e di intrighi, sia all’interno che all’esterno. All’interno, era il grande affare del favore del principe, che una folla di nobili valletti si disputavano con un accanimento feroce, impiegando in questa lotta tutta la villania di cui la bassezza, la perfidia, l’avidità e la vanità dei cortigiani e delle cortigiane sono capaci. Più una corte era piccola, e più questo complotto incessante, che ne costituiva, in qualche modo, l’atmosfera, si manifestava cinico, ridicolo, atroce, disgustoso. Maritare il principe, dargli un’amante, rimpiazzarla con un’altra, scacciare un favorito per nobilitarne uno nuovo, ecco i grandi affari che assorbivano l’intelligenza della gioventù nobiliare della Germania. Questa cabala interna serviva, in qualche modo, come scuola, dove si formavano gli uomini di Stato, i diplomatici. Una volta formati, si lanciavano sul teatro pubblico della diplomazia esterna, che divenne, in qualche modo, la scienza o, piuttosto, l’arte privilegiata della gente nobiliare in Germania, così come in tutti gli altri paesi.

Si sa che cosa è la diplomazia: è l’arte e la scienza della bricconeria, legittimata dal servizio dello Stato. Si è detto, con molta ragione, che se, nel suo interesse privato, qualunque sia, un individuo volesse permettersi la decima parte degli atti che i diplomatici più rinomati dell’Europa, compiono sotto i nostri occhi, lo si porterebbe davanti alla giustizia e lo si porterebbe al bagno, a meno che non sia abbastanza ricco e potente da evitare l’uno e l’altro. Machiavelli, il fondatore della scienza politica, in quanto scienza storica e positiva, l’ha dimostrato molto bene: lo Stato, ogni Stato, monarchico o repubblicano, è la medesima cosa – non esistendo lo Stato che attraverso la violenza e, non essendo esso stesso nient’altro che una violenza sistematica o continua, aperta o mascherata, ma sempre imposta alle masse da una minoranza dominante o da un governo qualsiasi – lo Stato non può mantenersi che attraverso una violenza continua e sistematica del diritto umano, della morale umana; ciò che ritorna a dire che non può esistere che attraverso il crimine. Ma una volta che lo Stato, la sua integrità, la sua grandezza, la sua potenza, e, di conseguenza, anche la sua estensione, per quanto possibile, sono poste come scopo supremo al quale ogni uomo nato nel suo seno, ogni suddito, deve sacrificare tutto il resto, è evidente che ogni crimine che si commette nell’interesse dello Stato, diviene altrettanta virtù. Così gli uomini di Stato, i diplomatici che se ne rendono colpevoli, lontano dal nascondersi, se ne fanno una gloria. Quanti crimini flagranti, per esempio, Bismarck ha commesso, direttamente, contro la Francia e, indirettamente, contro la Germania! Ebbene, tutti lo festeggiano oggi come il più grande uomo di Stato dell’Europa. E Thiers, perché non soltanto i monarchici e i conservatori dell’Europa e della Francia, ma anche gli stessi repubblicani, l’estrema sinistra, anche l’uomo dell’avvenire, Gambetta, perché tutti lo proclamano l’uomo indispensabile e il salvatore della Francia? Perché, per la salvezza dello Stato, ha fatto assassinare quarantamila difensori della Comune di Parigi, questa negazione, ormai storica, dello Stato, e perché continua a fucilarne ancora alcuni, come vittime reclamate da questo grande idolo che è lo Stato.

Si vede che, sotto tutte le forme di governo, nella monarchia così come nella repubblica dal momento che la salvezza dello Stato lo reclama, tutti gli uomini di Stato sentono, pensano e fanno, la medesima cosa. Su questo terreno tutti si danno la mano, Murav’ev e Haynau, Bismarck e Thiers, Gambetta, e fino allo stesso Marx, se mai Marx sarà chiamato a governare uno Stato.

Tuttavia, ai nostri giorni, si fa un vero progresso. Io non so più chi ha detto che l’ipocrisia era un omaggio, che il vizio rendeva alla virtù; la diplomazia moderna tende a giustificare questo proverbio. Leggendo i proclami che gli attuali uomini di Stato non mancano di lanciare, quando intraprendono qualche cosa di molto sinistro, si direbbe che essi non hanno che un solo scopo, il bene di questa povera umanità. Ma, all’epoca di cui io parlo, questa parola era quasi sconosciuta, così in Germania come altrove. Dio era allora il grande paravento – il Dio delle battaglie e dei re, o, come ha detto più tardi il grande Federico, il Dio dei grandi battaglioni. Del resto, a quell’epoca, non si aveva nemmeno bisogno di pretesto. La furfanteria dei cortigiani e dei diplomatici s’installava, con tutto il suo cinismo, tanto più onorata e festeggiata quanto più era abile e felice. Si disprezzava tanto il pubblico borghese e la canaglia popolare, che non ci si prendeva nemmeno la pena di ingannarli. I diplomatici francesi, che davano il tono a quelli di tutti gli altri paesi, erano dei cortigiani raffinati. Ci si può immaginare ciò che dovevano essere i diplomatici della Germania, che uguagliavano e, spesso, sorpassavano i loro modelli francesi in tutte le cose, meno che nello spirito.

A fianco della burocrazia e della diplomazia, vi fu ancora un’arte che prosperò molto in Germania. L’arte militare. È in Germania che nacque la mania, la passione, di giocare [al] soldato. La vera patria di questa nobile passione, è la Prussia. Si sa che presso il padre del grande Federico, essa era diventata una vera follia; non sognava che uniformi; avaro, spendeva molto denaro per comprare dei bei soldati, e, quando non poteva comprali, li rubava e li irreggimentava con la violenza. I prìncipi della Germania, che volevano fargli la loro corte, gli consegnavano i loro più bei sudditi. Non bisogna stupirsene, poiché alla stessa vigilia della Rivoluzione francese, allorché tutta l’Europa, già inondata dalla luce del libero pensiero, fremeva nell’attesa dei grandi avvenimenti che dovevano scompigliarla tutta, allorché dei despoti stessi, come Caterina II, Federico II, Giuseppe II e molti altri ancora, trascinati dalla vertigine di un liberalismo universale, credevano di dover incoraggiare questo spirito nuovo che aveva invaso tutto il mondo, due sovrani tedeschi, il duca di Brunswick e il conte di Haynau, vendevano tranquillamente una ventina di migliaia di soldati tedeschi al re dlnghilterra, senza nemmeno darsi la pena di concludere con lui un trattato di alleanza effettiva contro l’America insorta, contro la quale, questi soldati, furono impiegati, ma facendosi pagare semplicemente, con denaro contante. Fu una vendita di uomini, di soldati e di sudditi tedeschi in piena regola. Questo fatto caratterizza, da solo, il potere dei prìncipi tedeschi, la pazienza angelica dei loro sudditi, e, in particolare, lo spirito del militare tedesco a quell’epoca. Giuseppe II e molti altri ancora, trascinati dalla vertigine di un liberalismo universale, credevano di dover incoraggiare questo spirito nuovo che aveva invaso tutto il mondo, due sovrani tedeschi, il duca di Brunswick e il conte di Haynau, vendevano tranquillamente una ventina di migliaia di soldati tedeschi al re dlnghilterra, senza nemmeno darsi la pena di concludere con lui un trattato di alleanza effettiva contro l’America insorta, contro la quale, questi soldati, furono impiegati, ma facendosi pagare semplicemente, con denaro contante. Fu una vendita di uomini, di soldati e di sudditi tedeschi in piena regola. Questo fatto caratterizza, da solo, il potere dei prìncipi tedeschi, la pazienza angelica dei loro sudditi, e, in particolare, lo spirito del militare tedesco a quell’epoca.

Era l’ideale del soldato macchina, dell’uomo abbrutito dalla disciplina militare al punto che ammazza e che si fa ammazzare, per qualche soldo al giorno, senza sapere nemmeno chi ammazza e perché lo ammazza. In quanto agli ufficiali tedeschi, nobili in maggior parte, erano dei veri cavalieri di ventura, che affittavano i loro servizi al sovrano che dava di più, tedesco o anche straniero, e che portavano, in tutti i paesi che onoravano con i loro servizi lucrativi, la stessa fedeltà del cane di fronte ai loro capi e ai loro prìncipi d’occasione, la stessa durezza per il soldato, e lo stesso disprezzo per il borghese e per il popolo.

Che si riuniscano, che si combinino tutti gli elementi sociali che ho appena esaminato uno a uno, e si avrà un’idea perfettamente giusta della Germania, così come era uscita dalla Riforma e dalla Guerra dei Trent’anni, fino alla seconda metà del diciottesimo secolo, cioè per più di tre secoli di seguito. E ora, la mano sul cuore, che ognuno dica se io non ho avuto mille volte ragione di affermare, contrariamente a Marx, che non è affatto la Russia, che è la Germania, che dal sedicesimo secolo fino ai nostri giorni, è stata la fonte e la scuola permanente del dispotismo di Stato in Europa. Di ciò che, negli altri paesi dell’Europa, non è stato che un fatto, la Germania ha fatto un sistema, una dottrina, una religione, un culto: il culto dello Stato, la religione del potere assoluto del sovrano e dell’obbedienza illimitata del suddito, l’umiliazione, l’annichilimento di ogni subalterno di fronte al suo capo, e il rispetto del rango come in Cina, la nobiltà della sciabola, l’onnipotenza meccanica di una burocrazia gerarchicamente pietrificata, il regno assoluto della scartoffia giuridica e ufficiale, sulla vita, infine, l’assorbimento completo della società nello Stato; al di sopra di tutto ciò, il beneplacito del principe quasi-Dio e, necessariamente, quasi-folle, con la depravazione cinica di una nobiltà contemporaneamente stupida, arrogante e servile, pronta a commettere tutti i crimini per compiacerlo; e al di sotto, la borghesia e il popolo che dava, al mondo intero, l’esempio di una pazienza, di una rassegnazione e di una subordinazione senza limiti.

Marx pensa, forse, che un popolo, per quanto dotato sia, possa restare impunemente in una simile situazione per un lungo periodo storico, senza che la schiavitù penetri fino nell’ultima ramificazione delle sue vene, divenga sua abitudine, la sua seconda natura? E se questo popolo, come si può dire con piena giustizia del popolo tedesco, nemmeno prima di questi tre secoli, ha mai conosciuto né desiderato la libertà; se, in mezzo al movimento progressivo dei popoli vicini, è rimasto un popolo stagnante, contemplativo, meditativo – lavorando molto è vero, ed è lì il suo onore, ma non rivoltandosi mai, eccetto un momento, molto breve, della sua vita, all’inizio della Riforma – che cosa ha dovuto diventare, durante questi tre secoli di immobilità e di assenza di pensiero assoluti? Un eccellente strumento per tutte le imprese del dispotismo, sia dentro che fuori; una base molto solida per la propaganda, l’irraggiamento e le invasioni, del dispotismo in tutto il mondo.

Se la Germania non è più stata conquistatrice, a partire dalla Riforma fino alla fine del diciottesimo secolo, se ha lasciato questo ruolo alla Francia di Richelieu e di Luigi XIV, non fu per mancanza di stati d’animo, ma unicamente per mancanza di potere. La Riforma aveva portato un colpo mortale all’Impero germanico, l’aveva sgretolato di fatto, se non ancora di diritto. La Germania era infinitamente divisa. La Germania cattolica, spezzata, del resto, in due parti ineguali dalla gelosia secolare dell’Austria e della Baviera, era tenuta in scacco da una folla di piccoli prìncipi protestanti, sempre pronti a coalizzarsi e, al bisogno, anche ad appoggiarsi sulla Francia cattolica contro di essa. Ciò riduceva, naturalmente, tutta la Germania in una completa impotenza.

Strana situazione quella di un popolo molto numeroso, molto robusto, conquistatore e invasore, sia per tradizione che per inclinazione – gli Slavi ne sanno qualche cosa, e gli Italiani anche – disposto più a diventare un eccellente strumento di conquista anche per la sua stessa schiavitù, per quella disciplina interiore, volontaria, per quella passione all’obbedienza, che ne facevano un popolo modello – e che, malgrado tutti questi grandi vantaggi, si è visto ridotto a giocare, per tanti secoli di seguito, il ruolo di un popolo vittima, oppresso e decimato più o meno da tutti gli Stati vicini, perfino anche dalla piccola Svezia; di un popolo che non domandava di meglio che di invadere e a destra e a sinistra e ovunque, e che, invece di ciò, è stato condannato a trovarsi sempre invaso; perché infine, la maggior parte delle guerre che insanguinarono l’Europa dalla Riforma, fino ai nostri giorni, ebbero per teatro la Germania, ciò che, naturalmente, già dal solo punto di vista della tranquillità e degli interessi materiali, è dovuto dispiacere molto ai Tedeschi, nello stesso tempo che ciò doveva urtare molto la loro vanità nazionale.

Ne è risultato, molto lentamente e molto impercettibilmente, prima, è vero, un sentimento naturale e necessario di reazione contro la causa di tutta questa vergogna e di tutte queste disgrazie, contro la divisione della Germania in una moltitudine di Stati – non contro lo Stato in generale. Non era la reazione di un popolo che amava e che voleva la libertà, contro il dispotismo interno dello Stato che gli impediva di gioirne; era quella di un popolo che, sentendosi l’inclinazione e la potenza naturale della conquista, aspirava ad una forma politica capace di soddisfare questo desiderio istintivo e di mettere in azione questa potenza. Perciò, non vi era che una sola forma, quella di un grande Stato unitario, che abbracciasse patriotticamente tutta la Germania, e anche più di quella, tutti i paesi che i Tedeschi hanno preso l’abitudine, storica e scientifica al tempo stesso, di considerare come parti integranti della grande patria tedesca. È ancora oggi il sogno di tutti i pangermanisti.

Ma, per la realizzazione di questo sogno, occorreva un organo, e questo organo non poteva essere altro che uno Stato tedesco, già abbastanza potente per conto suo, e che doveva diventarlo maggiormente attraverso l’incremento dei mezzi che avrebbe ricevuto, più tardi, dalla Germania intera. È chiaro che, poiché l’unità, sempre più desiderata, fin dalla seconda metà del diciottesimo secolo, dagli spiriti più patriottici della Germania, aveva conformemente a tutto il carattere nazionale, per ultimo fine la potenza, è chiaro, dico, che questa unificazione e centralizzazione nazionale della Germania, non poteva essere realizzata che dallo Stato, e non da un movimento spontaneo delle popolazioni tedesche stesse, un simile movimento poteva, sì, produrre la prosperità materiale e la libertà, ma non la potenza politica di una nazione, a meno che il movimento popolare, ispirato piuttosto da quella passione di grandezza politica che dall’amore della libertà, non tendesse e non sfociasse da solo alla creazione di un grande Stato, così come lo desiderano oggi i democratici socialisti della Germania, i quali, evidentemente, si sforzano di trascinarla su questa strada.

Ma era assolutamente impossibile che le popolazioni tedesche marciassero spontaneamente su questa strada. Perché, per fondare il grande Stato unitario, esse dovevano prima abbattere quella moltitudine di piccoli Stati, di piccoli prìncipi, tra i quali la Germania si trovava divisa, ed era un’impresa, un’azione di cui i popoli tedeschi erano, e si mostrano ancora, almeno fino a questo momento, assolutamente incapaci. Per abbatterli per mezzo del loro proprio movimento, essi non avevano, non hanno ancora oggi, che un unico mezzo, la rivolta, e noi abbiamo visto che la rivolta è stata sempre estranea, per non dire profondamente antipatica, a quella eccellente natura tedesca, tutta impastata di rispetto, di sottomissione e di rassegnazione, piena di una venerazione tanto istintiva quanto ponderata, verso tutte le autorità, e di sconfinata devozione ai suoi principi.

Questa virtù politica è talmente radicata nel cuore dell’immensa maggioranza dei Tedeschi, che il grande patriota Ludwig Börne, quando aveva appena quarant’anni, scriveva queste terribili parole:

“Gli altri popoli possono essere schiavi; li si può mettere in catene e dominarli con la violenza; ma i Tedeschi sono dei lacchè, non si ha nemmeno bisogno di incatenarli, li si può lasciar correre senza pericolo”.

Il dottor Johann Jacoby, anch’esso uno dei più grandi e dei più degni patrioti della Germania, e che ancora oggi è uno dei capi più riconosciuti del Partito della democrazia socialista, al quale ha dato appena ultimamente la sua piena adesione, ha ripetuto, più volte, la stessa cosa, benché in termini molto più parlamentari e gentili.

Ecco, ad esempio, le parole che ha pronunciato davanti agli elettori a Berlino, il 5 giugno 1848, allorché il movimento rivoluzionario di cui la Francia, come sempre, aveva preso l’iniziativa, era penetrato in Germania, e delle quali il linguaggio era, in generale, ancora molto ardito:

“Ovunque in Germania – con la sola eccezione del Baden – la rivoluzione si è liberamente arrestata davanti al trono vacillante; prova che il popolo tedesco, anche volendo porre un limite al potere sovrano dei prìncipi, non è minimamente disposto a cacciarli”.

E dieci anni più tardi, ricco di notizie e di ben crudeli esperienze, e più convinto che mai, ecco quelle che ha pronunciate in una assemblea di elettori nel novembre 1858 a Koenigsberg:

“Rispetto al re! Se mai un’epoca, l’anno 1848 ci ha insegnato fino a quale profondità l’elemento monarchico ha spinto delle radici nel cuore del popolo. Rendendo alla monarchia questo omaggio che gli è dovuto, noi non tradiamo il principio dell’eguaglianza dei diritti, noi diamo soltanto soddisfazione a un’esigenza, perfettamente giusta, fondata sia sul bisogno del nostro popolo che sullo sviluppo della nostra patria”.

Le prime parole che ho appena citato furono pronunciate dall’illustre capo del partito democratico della Germania nel bel mezzo della rivoluzione, mentre tutti i troni vacillavano realmente e mentre non c’era bisogno che di una semplice manifestazione di volontà da parte del popolo tedesco per farli cadere. Il dr. Jacoby, repubblicano di pensiero e di cuore ma, nello stesso tempo, osservatore coscienzioso, testimonio attivo di tutto ciò che succedeva attorno a lui, ha constatato, non senza dolore, senza dubbio, che il popolo tedesco, ridiventato categoricamente padrone del suo destino durante quei pochi mesi di fermento nazionale, non ha voluto essere libero, ha voluto, al contrario, restare suddito dei suoi prìncipi, non perché essi erano dei buoni prìncipi – tutti sanno quanto essi sono stati e sono rimasti ridicoli ed orribili – ma perché aveva preso l’abitudine profondamente nazionale al loro giogo. Se il dr. Jacoby aggiunge che il popolo tedesco voleva, nello stesso tempo, porre delle condizioni e dei limiti al loro potere assoluto, non bisogna prendere queste parole troppo sul serio. In un altro discorso pronunciato molto più tardi [il 30 gennaio 1868, davanti un’assemblea di elettori a Berlino], egli stesso dice:

“Parliamo di movimenti popolari, del risveglio della coscienza politica nel popolo, delle risoluzioni, delle manifestazioni e delle rivendicazioni popolari; ma dobbiamo tuttavia confessare a noi stessi che non è che una minima frazione del popolo (senza dubbio la borghesia radicale, che resta propriamente al di fuori del popolo) che prende parte alle nostre lotte per la libertà”.

Nel suo secondo discorso, pronunciato a Koenigsberg nel 1858, cioè dieci anni dopo la rivoluzione del 1848 – dopo dieci anni della reazione più terribile che abbia mai infierito in Germania, e che sarebbe stata capace di stancare la pazienza e la fede di ogni altro popolo che il tedesco – il venerabile patriota constata, più esplicitamente che mai, la profondità delle radici che il sentimento monarchico, cioè quello della schiavitù volontaria, ha spinto nella coscienza, nella natura del popolo tedesco. Egli lo chiama un bisogno di questo popolo, e confessa che è una necessità dello sviluppo della patria tedesca.

In una parola, con ogni sorta di reticenza e di riguardi imposti, senza dubbio, sia dalle circostanze che dalle abitudini di un temperamento più calmo, e da uno spirito più contemplativo e meno irascibile, il dr. Johann Jacoby ha completamente confermato la terribile sentenza pronunciata contro il popolo tedesco dal suo grande compatriota e predecessore, il dr. Ludwig Börne. Questo popolo non ha mai amato molto la libertà, e, a meno di avvenimenti straordinari e, probabilmente, esterni, quali una rivoluzione sociale che scoppia in Francia o in qualche altro paese del meridione dell’Europa, o anche in Inghilterra, non soltanto sarà incapace di rovesciare lui stesso i suoi tiranni, ma non desidererà nemmeno la loro caduta. Le ragioni che glielo impediranno saranno sempre il culto dell’autorità, la devozione per il principe, la fede nello Stato e il rispetto incallito per tutti i funzionari e i rappresentanti dello Stato; infine, questa mania della disciplina volontaria e dell’obbedienza ragionata, sviluppata in lui da tutta la sua storia, e, come abbiamo visto, soprattutto dagli ultimi tre secoli, avendo il protestantesimo consacrato, con la sua benedizione, in Germania, ma soltanto in Germania, tutte quelle disposizioni nazionali che fanno del popolo tedesco il popolo più liberamente asservito e, oggi, il più minaccioso per la libertà del mondo.

Una volta dati tutti questi elementi, si comprende che l’unità della Germania, così necessaria alla realizzazione della sua potenza politica, non poteva essere il risultato di un movimento liberale spontaneo della nazione stessa, ma solo quello della conquista; senza dubbio non della conquista straniera, ma dell’assorbimento violento di tutti i piccoli Stati della Germania in uno Stato, a paragone più potente, e se non ugualmente o completamente, almeno in gran parte germanico. Non è questo il luogo di dimostrare perché, né l’Austria né la Baviera, spossate e paralizzate del resto dalle loro precedenti lotte così come dalle loro reciproche gelosie, e colpite a morte dal principio dell’ultra-montanismo cattolico, al quale, per loro propria disgrazia, erano rimasti troppo fedeli, non erano ormai capaci di rendere questo grande servizio alla Germania, servizio che reclama l’azione di uno Stato tutto nuovo, per niente, o assai poco, compromesso dalla storia. Questo Stato nuovo, lo sanno tutti, fu la Prussia.

La storia dello Stato brandeburgo-prussiano, fino al 1807, non fu che quella dei suoi prìncipi, prima margravi, elettori di Brandeburgo e vassalli della Polonia per la Prussia, divenuti nel 1701 re di Prussia, e subito dopo, i protettori e, come tali, i comproprietari della Polonia, gli iniziatori incontestabili di quella spartizione che, oggi, i democratici socialisti della Germania maledicono con più energia che sincerità. Fino alla grande catastrofe di Jena, non vi fu, propriamente, una nazione prussiana. Era un agglomerato di popolazioni eterogenee, in parte slave, e in particolare polacche, in parte tedesche, e che non erano unite fra loro, come, ad esempio, quelle del Brandeburgo, con quelle della Prussia, che attraverso la persona del sovrano.


[Frammento formante un seguito dell’Impero knut-germanico. Novembre-Dicembre 1872. Traduzione italiana in M. Bakunin, Opere complete, vol. III, seconda ed., Catania 1999, pp. 210-262. Le note, in larga parte, sono state escluse].


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