La figura dell'orso è onnipresente nello spiritualismo e nell'esoterismo traendo le sue origini dai culti eteni/pagani pre-cristiani fino ad essere stato riciclato (come tutte le tradizioni etene e pagane) e riutilizzato molte volte mistificando il suo reale significato esoterico e spirituale. Con la riscoperta dei culti europei pre cristiani, l'orso è tornato a pieno titolo animale totemico incarnando la nostalgia di sacro di una folta tribù pagana dei nostri tempi.
Il tempo del carnevale è profondamente caratterizzato da maschere animali che con la loro pubblica uscita nella comunità predicono il corso della nuova annata agraria, suggerendo al contadino una strategia da tenere circa i lavori agricoli. Il calendario festivo del Piemonte rurale è da sempre scandito da una vasta e complessa cerimonialità imperniata su usanze legate al risveglio della terra. In questo mondo, la luna era il più importante regolatore dei ritmi tradizionali, perché permetteva di stabilire con largo anticipo la natura dell’annata ventura consentendo di impostare il lavoro agricolo.
L’orso carnevalesco andava in letargo ogni anno l’11 di novembre (san Martino): quest’avvenimento determinava l’avvicinarsi della stagione invernale. Il risveglio dell’orso era associato alla comparsa nel cielo della luna invernale che annuncia la Pasqua: in questa notte (tra l’1 e il 2 febbraio), l’orso usciva dalla sua tana per osservare la posizione dell’argenteo astro nel cielo. In relazione alla fase lunare, decideva se tornare in letargo oppure uscirne definitivamente. Secondo un proverbio molto diffuso, se in questa notte fatidica il cielo è scuro (risveglio in luna nuova) l’orso abbandonerà il suo giaciglio e quindi inizierà presto la primavera; se al contrario il cielo è chiaro (risveglio in luna piena) l’orso tornerà a dormire per quaranta giorni e la primavera tarderà ad arrivare. Ciò serviva al contadino per ricordare, di anno in anno, come interpretare la posizione della luna e quindi sapere se sarebbe stata un’annata favorevole (Pasqua alta) o negativa (Pasqua bassa).
Il motivo per cui l’orso è assurto al ruolo di predittore del risveglio della primavera va ricercato nella sua abitudine di trascorrere l’inverno sotto terra. Secondo l’etno-folklorista Claude Gaignebet (1974), tutti gli animali la cui ricomparsa o uscita dal letargo è legata all’avvicinarsi della primavera si sono visti attribuire un ruolo di psicopompo: ci si affidava a loro per il viaggio delle anime. L’orso è dunque il conoscitore del mondo dei morti e delle potenze ctonie e il suo letargo può essere interpretato come uno stato di quasi-morte stagionale da cui l’animale risorge, diventando un vero e proprio vincitore sulla morte.
Questo momento dell’anno in cui le forze del caos irrompono nel quotidiano, tra la morte e la rinascita della natura, era anticamente percepito con apprensione dalle comunità rurali, le quali credevano che le schiere dei morti tornassero a mescolarsi con i vivi: il costume di travestirsi per identificarsi con queste schiere di anime riflette un’idea familiare, e cioè che per comunicare con i morti occorra diventare (almeno temporaneamente) uno di essi.
Per citare le parole di Alfredo Cattabiani: Le maschere […] rappresentano l’epifania dei morti che riaffiorano e si confondono con i vivi nel generale rimescolamento: terrificanti e vitali, aggrediscono, spaventano, toccano, prendono al laccio, rapiscono, si comportano da folli e buffoni mentre rumori assordanti alludono alla deflagrazione del vecchio cosmo-anno. Quelle maschere sono in realtà l’epifania della Morte che tutto rinnova […] (2003, p. 147)
Di certo l’elemento che appare indiscutibile è il rapporto tra la festa dell’orso e la Candelora: l’animale che si risveglia dal letargo invernale rappresenta il rinnovamento della natura che sconfigge il gelo dell’inverno. Le feste dell’orso che andremo ad analizzare sembrano inserirsi nel contesto di quei riti che simboleggiano, con il rovesciamento dell’ordine consueto, la periodica irruzione del caos primordiale, seguita da una rigenerazione cosmica concretizzata dall’esorcizzazione e dalla successiva espulsione della maschera animale (personificazione dell’inverno) dalla comunità.
L'atteggiamento della Chiesa nei confronti degli Orsi
L’atteggiamento della Chiesa nei confronti dell’orso, sin dal Medioevo, risulta complesso e contradditorio. L’orso sembra essere, talora, lo strumento di Dio per proteggere i suoi servitori: difatti alcuni santi, fra cui Bernardo da Mentone, che liberò dal demonio i due colli alpini che portano il suo nome, sono raffigurati accompagnati da un orso con il bastone. Tuttavia i casi in cui l’orso serve docilmente un santo, più che a un valore positivo dell’orso, sembrerebbero riferirsi all’idea di una vittoria del Bene (impersonato dal santo) che ha ridotto in schiavitù il Male (orso/demonio); dal Medioevo, infatti, la Chiesa portò avanti l’opera di demonizzazione dell’orso al fine di impossessarsi di una figura particolarmente significativa e ingombrante dell’immaginario folklorico precristiano.
Dal xiv secolo l’orso compare nell’iconografia cristiana come simbolo di alcuni dei più gravi peccati capitali e la sua immagine viene utilizzata per rappresentare i Vizi in opposizione alle Virtù oppure viene integrata in certe forme di teatro liturgico dove subisce un processo di demonizzazione, come accade nel Mistero della Passione di Sordevolo (BI) che «fino al 1934 metteva in scena un uomo travestito da orso per simboleggiare il capo dei diavoli» (Carénini, 2003). Nell’esaminare le fonti agiografiche non può sfuggire la presenza e l’importanza dell’orso in relazione con alcuni santi, in un ricco e fiorito corollario di episodi dall’evidente significato simbolico. La simbologia dell’animale viene spesso utilizzata per esprimere qualità morali o filosofiche oppure per mettere in evidenza i vizi e i peccati mortali.
A tal proposito, sembra che nei periodi in cui si celebravano le principali cerimonie ursine, feste che annunciavano il risveglio dell’orso dal letargo come metafora dell’arrivo della primavera, la Chiesa abbia voluto collocare una grande quantità di festività cristiane e, in particolare, di santi ursini. Se ne possono citare alcuni esempi: san Remaclo (3 settembre), Magno (6 settembre), Corbiniano (8 settembre), Eufemia (16 settembre), Lamberto (17 settembre), Riccarda (18 settembre), Fiorenzo (22 settembre), Tecla (23 settembre), Gisleno (9 ottobre), Gallo (16 ottobre), Martino (11 novembre), Colombano (23 novembre), Eligio (1° dicembre), Columba (31 dicembre), Vincenziano (2 gennaio), Romedio (15 gennaio), Valerio (29 gennaio), Biagio (3 febbraio), Valentino (14 febbraio).
In molte regioni d’Europa si pensava che l’orso uscisse dal letargo il 2 o il 3 febbraio e giochi, danze e mascherate ursine celebravano in quei giorni la fine dell’inverno. La Chiesa tentò di rafforzare la sua posizione sovrapponendovisi e collocando al 1° febbraio la festa di santa Brigida, patrona dell’Irlanda e immagine cristianizzata della Dea Madre celtica, e al 2 febbraio la Presentazione al Tempio di Gesù prima e la Purificazione di Maria dopo. Ma non fu sufficiente: il risveglio dell’orso dal letargo era accompagnato dal ritorno del sole e della luce e per questo le festività erano spesso accompagnate da falò propiziatori e processioni rituali di uomini con torce accese. Nel V secolo, nel tentativo di redirezionare queste pratiche in senso cristiano, papa Gelasio istituì la festa delle candele: tuttavia, in Francia, dove il ricordo della festa dell’orso era ancora molto vivo, dal xii al xviii secolo, la festa candelarum fu spesso chiamata “Candelorsa”.
Il primo studio approfondito sulla sua diffusione della maschera dell’orso in Piemonte e Valle d’Ao (...)
17In Piemonte a partire dagli anni Settanta e Ottanta del Novecento si assiste a una ripresa, riproposta e reinvenzione della cerimonialità tradizionale che era stata accantonata, o abbandonata, a causa dei processi di industrializzazione e urbanizzazione. Indagini sul campo compiute negli anni Novanta1 hanno dimostrato come gruppi spontanei di persone abbiano riportato alla luce tradizioni popolari ritenute perse a causa delle mutate condizioni socioeconomiche e culturali delle nostre campagne. Negli anni sono state recuperate in diversi luoghi le pratiche legate alla figura selvatica dell’orso, anche grazie al lavoro di ricerca promosso dalla Regione Piemonte attraverso il Settore Pianificazione Aree Protette - Laboratorio Ecomusei, che collabora con l’Archivio della Teatralità Popolare - Casa degli Alfieri.
In tale contesto di ricerca si sono collocati alcuni importanti eventi: il primo è stato il progetto “Rinselvatichire il Piemonte”, cui hanno collaborato l’Ecomuseo della Segale di Valdieri, l’Ecomuseo dei Terrazzamenti e della Vite di Cortemilia e l’Ecomuseo del Basso Monferrato Astigiano. Sulla scia della mostra “Bestie, Santi, Divinità. Maschere animali dell’Europa tradizionale”, tenutasi presso il Museo Nazionale della Montagna “Duca degli Abruzzi” di Torino nel 2003, è poi nata la mostra itinerante “Dei selvatici. Orsi, lupi, uomini selvatici nei carnevali del Piemonte”, a cura di Piercarlo Grimaldi e Luciano Nattino, che è stata presentata, da gennaio ad aprile 2007, alla Maison d’Italie di Parigi, al Museo di Scienze Naturali di Torino e nei territori degli ecomusei interessati dal recupero della maschera dell’orso (Cortemilia, Valdieri, Cunico).
Le lunghe e approfondite ricerche sul territorio piemontese sono sfociate nel seminario “Liberiamo l’orso. I carnevali europei tra addomesticamento e selvaticità”, tenutosi il 7 febbraio 2013 presso il Museo di Scienze Naturali di Torino. Gli “orsi” e i “selvatici” della cultura popolare della Finlandia (dove è tuttora possibile ammirare realmente l’orso in natura) hanno incontrato e dialogato con quelli del Piemonte (dove se ne è conservata la memoria nelle feste di alcune comunità).
La ricerca sulle maschere dell’orso e sulla figura dell’uomo selvatico, esseri-guida dei carnevali tradizionali, ha (ri)portato alla luce alcune figure carnevalesche ricche di fascino. In Piemonte il passaggio carnevalesco dell’orso per le vie del paese si traduceva (e spesso continua a tradursi) in una struttura narrativa ricorrente in cui il personaggio che impersona l’orso passa nelle case e nelle stalle a raccogliere offerte in cibo e in vino. Nella maggior parte dei cortei mascherati è previsto che l’orso venga catturato dai cacciatori o scortato da uno o più domatori e portato in catene per le vie del paese.
Cenni Storici
L’etnologo Jean Dominique Lajoux (2003, p. 74) sottolinea la difficoltà nel determinare chi tra il domatore e l’orso sia il personaggio più antico nei cortei mascherati e ipotizza che queste maschere formino, piuttosto, un tutt’uno. Secondo Lajoux, infatti, soprattutto nell’Europa dell’est, il domatore rappresenta l’ultima metamorfosi degli sciamani che, nei Paesi slavi, e soprattutto presso numerosi gruppi autoctoni della Siberia, si riteneva possedessero la potenza dell’orso. L’addomesticamento consiste in alcune pratiche cerimoniali, quali la somministrazione di vino o alc (...)
23In Piemonte il rituale si conclude, nella maggioranza dei casi, con l’addomesticamento del plantigrado2 o un processo che ne garantisce la riabilitazione oppure una fuga. Ciò che cambia, rendendo molto diversa l’iconografia dei vari orsi, è il materiale usato per la maschera e il costume: pelli e pellicce (una volta di capra o di pecore e oggi anche sintetiche), piume (di oca o di gallina) intrise nella pece, nella conserva di pomodori o nella mostarda, intrecci di elementi vegetali quali paglia, segale e meliga, ma anche muschio e ricci di castagna.
A Valdieri, in Valle Gesso, il 15 febbraio 2004, dopo una lunga interruzione durata circa quarant’anni, la figura carnevalesca dell’orso è stata riproposta dall’Ecomuseo della Segale. La maschera dell’orso di segale richiede una lunga preparazione. Infatti la persona scelta per interpretare la mitica figura ursina deve essere completamente avvolta in una lunga treccia di paglia di segale. Un copricapo e una coda, sempre di paglia, completano il costume. Le mani e il volto vengono annerite con un turacciolo bruciacchiato. Al termine della vestizione l’orso esce dal luogo segreto in cui si è cambiato e viene portato in catene per le vie del paese da un domatore. Nella questua l’orso è accompagnato da altre figure che facevano parte dell’antico Carnevale di Valdieri: i perolìer, una sorta di stagnini ricoperti di fuliggine e vestiti di stracci, i fra (frati) che declamano una serie di pìstole (componimenti ironici sugli abitanti del paese e sulle comunità vicine, talora anche inventati) e la Quaresima, una giovane ragazza che indossa una maschera bianca a celarle il volto.
Durante la questua l’orso tenta di fuggire e di assalire le donne che incontra durante il percorso. La festa termina quando l’orso, dopo aver ballato con la Quaresima, si dilegua, mentre viene simbolicamente bruciato sulla piazza un pupazzo costruito con la segale. A None si svolgeva una cerimonia simile e l’orso «era tutto impagliato. Gli avevano messo un affare con tutta paglia, fatto con la coda, come l’orso. L’avevano attaccato con una catena e lo facevano passare per None» (Dell’Acqua, 2004, p. 309).
Anche nella Valle Stura, a Demonte, l’orso seguiva la medesima pratica cerimoniale: L’individuo prescelto si trasformava in Orso grazie a un lunghissimo legaccio (n’ elyàm) di paglia ritorta, come quello che si usava per annodare i covoni della segale, con la differenza che alla prima paglia se ne aggiungeva altra e poi altra ancora (juntaven sémpe juntaven sémpe). Una interminabile “corda” di paglia (analoga pure a quella che si usava fare per impagliare le sedie) avvolgeva dunque l’attore (fazìën virà), in senso orario, in modo tale da conferirgli adeguato volume trasformandolo in un enorme payasu… E sempre con un legaccio di paglia si modellava la coda. Soltanto le gambe e la testa dell’attore rimanevano parzialmente libere ma il capo doveva essere coperto da pelli per conferirgli un aspetto animalesco. (Ottonelli, 2003, p. 30)
Anche la comunità di Bellino era visitata nel periodo carnevalesco da un orso vestito di pelli e di segale (Grimaldi - Carénini, 2004). Tra gli orsi, il cui costume è realizzato con elementi vegetali, non va dimenticato quello di Cunico, nell’Astigiano, un orso carnevalesco rivestito di foglie di granoturco inumidite e opportunamente arricciate «con i denti della forchetta» come ricorda Giuseppina Germano (classe 1912) in un’intervista raccolta dall’Archivio della Teatralità Popolare - Casa degli Alfieri, in cui spiega che «ti veniva bene la frangia e il movimento di come si fanno gli gnocchi, te li faceva sembrare come dei riccioli». Poi le foglie di granturco venivano cucite su una tela che sarebbe andata a comporre il costume della persona scelta per impersonare l’orso. La testa veniva nascosta da un copricapo realizzato con la medesima tecnica. Anche in questo caso l’orso veniva incatenato e portato per le vie dal paese da un domatore.
L’ultima volta che l’orso mise piede per le vie del paese era sul finire degli anni Sessanta del Novecento, ma nell’autunno del 2006 la figlia dell’anziana contadina che aveva costruito in gioventù per il marito l’abito vegetale, ha ricostruito il costume dell’orso di sfojass. Il rito è stato riproposto con qualche reinvenzione l’anno seguente, grazie soprattutto al lavoro della Pro Loco e le compagnie teatrali La Ciuenda, Faber Teatrer e Casa degli Alfieri. L’orso e il domatore sono stati accompagnati nella loro questua per le vie del paese da alcuni personaggi che in passato non comparivano: la figura del sindaco (incaricata di giudicare l’orso durante il processo e di imporre all’animale di rinunciare alla vita selvaggia) e le quaresime (impersonate da uomini vestiti da donne). Il processo e il testamento dell’orso sono fasi assenti dalla tradizione di Cunico, ma sono attestate in altri contesti rituali piemontesi.
L’orso di ricci di castagne e muschio di Balmuccia chiude il quadro relativo agli orsi il cui costume presenta intrecci vegetali. Il costume di questo particolare orso è stato riprodotto a partire da una fotografia pubblicata in un volume che descrive i Carnevali della Valsesia (Barbano, 1983, p. 209). Nella fotografia, l’orso è accompagnato da un Arlecchino munito di tamburo che, probabilmente, aveva la funzione di scandire la danza dell’orso. La maschera rinvia al riccio, altro animale del letargo che rinasce simbolicamente dopo il lungo inverno. L’originalità di quest’orso sta però nel tratto selvatico del suo costume, che lo rende un personaggio difficile da avvicinare, se non con estrema prudenza. La preparazione di questo costume, ma soprattutto l’indossarlo, richiede l’accettazione della sofferenza provocata dalle spine dei ricci che penetrano nelle mani del costruttore e nel corpo della persona scelta per impersonare l’orso.
La carrellata di orsi vegetali si chiude con il ricordo di una figura carnevalesca che aveva le stesse funzioni e i comportamenti dell’orso: l’Uomo Albero di Murazzano, ricostruito a partire dalle memorie di Teresa Galliano (classe 1921) e il cui costume è ora ospitato nel Museo della Maschera di Rocca Grimalda (Barroero, 2003, pp. 233-236). Tra gli uomini selvatici che ancora popolano le Alpi occorre ancora ricordarne due che sono stati ripresi a Champlas du Col (frazione di Sestriere). Questo carnevale, interrotto nel 1947, è tornato a vivere nel 2005: col rituale sono stati riproposti i due “vecchi” (così si chiamano i due uomini selvatici) accompagnati da una moglie che condividono, che nei tempi passati erano protagonisti dell’aratura simbolica della neve.
Memoria e pratica rituale dell’orso
Un’altra figura di orso di cui si ha attestazione nelle Langhe e nel Roero è quello fatto di piume. L’Ecomuseo dei Terrazzamenti e della Vite di Cortemilia nel 2005 ha recuperato la maschera antropomorfa dell’orso di piume grazie alla testimonianza di Augusto Monti nella sua descrizione del Carnevale tradizionale di Monesiglio: Fu l’anno che lo Scarpone, il ciabattino di piazza, s’intrise di pece e, sventrato quel bel piumino grande – la moglie che strilli! – ci s’avvoltolò nelle piume e trasformato in struzzo corse tre dì pel paese in subbuglio e fu raccattato alla fine fradicio di vino e ormai spennacchiato, che piangeva come un vitello, sconsolato di dover tornare uomo. (Monti, 1963, p. 185)
Memoria e pratica rituale dell’orso di piume è conservata ancora a Magliano Alfieri, dove il Gruppo Spontaneo locale ha conservato la tradizione del plantigrado, che indossa una tuta di sacco e viene cosparso di conserva a cui si appiccicano le piume delle galline. La tradizione non si è mai interrotta, ma l’uscita dell’orso non viene preannunciata in anticipo. Anche a Montà d’Alba persiste il ricordo dell’orso di piume. Cesare Taliano (classe 1938) ricorda che l’orso usciva il giovedì grasso e vestiva pelli di animali e piume di gallina: «Il viso veniva pennellato con miele o mostarda che consentiva di incollare le piume» (Adriano, 2003, pp. 233-36).
Le colline comprese nell’Ecomuseo Basso Monferrato Astigiano conservano altri tipi di orsi, come quelli mascherati con pelli. A Camerano e Chiusano si hanno attestazioni che risalgono fino agli anni Trenta (Garesio Pellissero, 2003, pp. 230-233). La memoria di questa tipologia di orso è altresì attestata nella frazione Valleandona della città di Asti (Grimaldi, 1996, p. 72), nella frazione di San Matteo di Cisterna e San Damiano (Mo, 2005, pp. 129-130).
Nel Cuneese, a Villaro, una frazione del comune di Acceglio, nell’alta Val Maira uno dei personaggi più importanti di Carnevale era l’orso: cacciato e catturato dal cacciatore, veniva portato in catene per le vie del paese finché, a fine giornata, veniva ucciso a colpi di fucile e poi caricato su una slitta e portato via. Nelle ultime edizioni del carnevale (dopo alcuni decenni d’interruzione e un primo tentativo di riproposta nel 1979, esso è stato ripreso nel 1989, ma solo per tre edizioni) la persona che impersonava l’orso indossava una pelliccia sintetica, ma l’informatrice Maria Luisa Ponza ricorda che in passato veniva utilizzata pelliccia di marmotta (Bonato, 2003, pp. 242-243).
Risalendo verso la metropoli torinese, troviamo un altro orso di pelli a Volvera. In questo piccolo paese di periferia la questua dell’orso era stata interrotta nell’ultimo dopoguerra ed è stata ripresa solo nel 1995, con il risultato che l’orso riproposto sembra molto lontano dall’iconografia popolare, quasi un personaggio di peluche. Oltre alla figura dell’orso, anche la capra animava il tempo trasgressivo del Carnevale di Volvera. Tradizionalmente il rito della capra si svolgeva nei venerdì di carnevale. Questa performance rituale era organizzata dai giovani del paese e consisteva nel far visita alle famiglie radunate nelle stalle per trascorrere a veglia le lunghe sere invernali. Attualmente la capra esce il martedì grasso e sfila per le vie del paese in compagnia dell’orso (Porporato, 2003, pp. 246-248).
Ulteriore immagine di orso è presente nell’antico carnevale del Lajetto, a monte di Condove, nella Valle di Susa; in passato si festeggiava durante la domenica “grassa”, l’ultima domenica di carnevale e nel secolo scorso l’organizzazione faceva capo ai membri della Società Filarmonica di Lajetto: erano i giovani uomini della borgata che stabilivano i vari ruoli all’interno della rappresentazione, cucivano le maschere e preparavano i costumi. Analizzando la rappresentazione carnevalesca, si possono distinguere due gruppi di personaggi: i “brutti” e i “belli”.
Nella categoria dei “brutti” appartengono: il Pajasso: vestito di pelli, ha l’aspetto di una feroce e selvaggio animale, assimilabile appunto a un orso, di cui conserva l’aspetto. Sulla testa, fra i lunghi peli, spuntano delle corna mentre ai piedi calza degli zoccoli e, legato a una gamba il campanello di una capra. In mano ha un grosso e lungo bastone a cui è legato un gallo;
i Vecchi e le Vecchie: sono vestiti di stracci, sporchi e malconci per avere il più possibile un aspetto repellente e spaventoso. Le coppie più scalmanate si rotolano nel fango e nella neve e poi commettono ogni sorta di scherzo ai presenti.
Invece tra i “belli” troviamo:
il Dottore: indossa una bombetta, giacca e cravatta, cappotto, pantaloni e scarpe eleganti. In mano ha un bastone dal manico ricurvo. Quando visita le Barbuire somministra loro una “medicina” (in realtà vino o grappa);
il Soldato: porta una divisa da soldato della cavalleria, con un elmo sotto al quale un foulard scuro copre i capelli e scende sotto il collo, infilandosi nella giacca. Il soldato ha con sé una sciabola da ufficiale e accompagna il medico, scortandolo e portandogli la valigia del pronto soccorso;
gli Arlecchini: (due) sulla testa hanno un lungo cappello bianco a forma di cono, ornato con una grande quantità di filamenti di diversi colori. Camicia e pantaloni sono bianchi con una fascia blu o rossa che scende da una spalla trasversalmente sul petto e sulla schiena;
il Monsù e la Tòta: il primo veste da signore elegante, con cappello e cappotto; la seconda è una signora elegante, con cappotto e calze (non proprio trasparenti, così da poter nascondere le gambe di colui che la interpreta), sulla testa porta un foulard che nasconde i capelli e cela la sua vera identità.
Anche nelle loro interpretazioni si può notare una disparità di comportamenti: i “belli” si mostrano più seri e posati, mentre i “brutti” tengono un comportamento sregolato. Anche qui (come altrove) l’identità delle Barbuire (nel patois locale il termine viene legato al francese barbu e barbouiller nel senso di “mascherata”) rimane segreta. Oggi, il corteo delle Barbuire, accompagnato dalla banda musicale, si snoda per i vicoli e le strade della borgata Lajetto tra gli scherzi e le scorribande dei Vecchi e delle Vecchie, fino a raggiungere un grande prato dove il pubblico, come un tempo, può osservare gli Arlecchini, il Monsù e la Tòta ballare al ritmo della musica della banda, mentre il Pajasso e le coppie di Vecchi continuano le loro allegre scorrerie. Il Dottore corre in soccorso delle Barbuire quando queste, stremate, si gettano a terra fingendosi morte. Accompagnato dal Soldato, il Dottore somministra loro una “medicina”. Si giunge quindi al momento culminante della rappresentazione: il Pajasso tagliando la testa a un gallo (che nel frattempo è stato appeso a un albero nel mezzo del grande prato) uccide se stesso, decretando la morte del Carnevale, la fine dell’inverno e l’arrivo della primavera.
Il “Ballo dell’Orso” che si svolge a Urbiano, altro piccolo comune della Valle di Susa, è un’altra antica tradizione folkloristica alpina impregnata di una ricca ritualità. La festa si svolge nel periodo della Candelora, il primo fine settimana di febbraio, ed è legata alla celebrazione della festa cristiana di santa Brigida, a cui è intitolata la chiesetta della borgata. L’iter della festa presuppone uno svolgimento abbastanza stereotipato in questo genere di tradizioni, che prevede una caccia simulata che culmina nella cattura dell’orso, che viene poi portato nella comunità (questua), fino all’epilogo che prevede la sua eliminazione/allontanamento. La festa è articolata in più giornate: nelle sere che precedono il ballo rituale, i bambini vagano per la frazione, di porta in porta, bussando e gridando “Fòra l’Ors!”.
La sera precedente la festa, si svolge il rituale mingia e beiva (mangia e bevi), così che i cacciatori, ben rifocillati, possano partire per la caccia all’orso (tradizione che ha sostituito la processione con fiaccole, guidata dai cacciatori col viso imbrattato di nerofumo). La domenica mattina, dopo la funzione religiosa e la distribuzione del pane della carità, la comunità si raduna intorno alla stalla dove è tenuto prigioniero l’orso, catturato durante la notte. Questo personaggio, a cui è stato cucito addosso un costume fatto di pelli di capra, viene scortato per il paese, tenuto incatenato dai cacciatori: questi ultimi hanno il viso imbrattato di nerofumo, portano pezzi di pelliccia sulle spalle, un bastone da pastore e delle pinze per tenere i carboni ardenti appese alla cintura.
Durante la processione il personaggio travestito da orso lancia possenti grida, amplificate grazie a un imbuto che ha anche un altro scopo: viene utilizzato per somministrargli a forza del vino, che ha il compito di indebolirlo. Alla fine, ammansito dalle percosse dei cacciatori e mitigato dal vino che gli è stato offerto, l’orso è sufficientemente addomesticato da poter scegliere la più bella ragazza del paese per danzare con lei, prima di essere lasciato di nuovo libero di tornare in montagna. La vera identità della persona che veste i panni dell’orso è tenuta segreta: solo i cacciatori ne sono a conoscenza e tra i paesani che partecipano alla festa l’argomento ricorrente di discussione verte proprio sull’identità dell’orso. Alla “caccia” all’orso di Urbiano si collega un proverbio locale che recita: Se l’ouers fai secha soun ni, per caranto giouern a sort papì, ovvero “Se l’orso fa asciugare il suo pagliericcio (dunque se c’è bel tempo quel giorno) per quaranta giorni non esce più (cioè continua l’inverno)”. Questo proverbio presenta affinità con versioni analoghe nella zona dell’Isère, della Savoia e delle Hautes-Alpes.
L’orso nella tradizione
L’orso nella tradizione alpina: analisi e spigolature tra Savoia, Delfinato e Valle di Susa
L’analisi d’archivio e sul campo condotta dall’antropologo Arnold Van Gennep (1933) ha portato a evidenziare la presenza di parecchi proverbi, comuni a quello valsusino, nelle terre d’Oltralpe, particolarmente nell’Isérois; tali proverbi e detti popolari, a una mia recente indagine, risultano tuttora quasi tutti ancora in auge: Chirens: se il sole si mostra in quel giorno, è per permettere all’orso di asciugare il suo pagliericcio, poiché vi saranno ancora 40 giorni di inverno. Gières: alla Candelora, se piove o è nuvoloso, dopo 40 giorni l’inverno se ne va; se, al contrario, il tempo è bello, l’orso entra nella sua tana scontento. Grenoble (e dintorni): se il sole appare in quel giorno, l’orso esce dalla tana, fa due o tre salti e vi rientra per restarvi; ma, se è brutto tempo, pensa che l’inverno sia finito. Huez: quando il tempo è brutto l’orso si nasconde per 40 giorni, mentre, se c’è il sole, l’orso fa asciugare il suo pagliericcio.
Mens: nella notte tra il 1° e il 2 febbraio, a mezzanotte, l’orso esce dal suo antro per osservare il cielo; se il cielo è chiaro e le stelle brillano egli si lecca la zampa e rientra nella tana dicendo: “L’inverno non è finito; avremo ancora 40 giorni di brutto tempo”. Se invece il cielo è coperto di nuvole, se piove o nevica, non rientra nel suo riparo perché, dice, “L’inverno è finito, ecco che arriva il bel tempo”. Moirans: alla Candelora, se il sole appare e poi scompare, l’inverno dura 40 giorni in più del previsto; quel giorno si chiude “l’orso” nella sua casa: si tratta di un vecchio conosciuto per essere scontroso. La Morte: in questo paese si racconta una vecchia storia sulla Candelora. Si è notato, negli anni, che in quel giorno, o per caso o per coincidenza, quasi sempre cade la neve a larghe falde. Ora, sembra che la Vergine, trasportata da un orso gigantesco, passi al mattino presto attraverso una radura, in un bosco discosto dal paese; si racconta che una volta un giovane, un po’ sempliciotto, sia stato mandato da alcune comari in quella radura per vedere cosa succedesse e poi raccontarlo in paese, ma la coltre di neve era così spessa che gli arrivava alle ascelle e dovette desistere.
Porcieu-Amblagnieu: alla Candelora, se l’orso (qui considerato il sole) mette fuori dalla tana la zampa al mattino e poi la ritira, sono 40 giorni in più di inverno; se mette fuori la zampa e non la ritira, sono 40 giorni d’inverno che se ne vanno. Prébois: l’orso esce dalla tana a mezzanotte, guarda il tempo che fa e dice: Si ploou vou si nivouôro – Dè l’hiver sian dèfouôro – Serrè vou clâ – Quaranta joû n’avin incâ (“Se piove o è nuvoloso siamo fuori dell’inverno, se è sereno o chiaro ne abbiamo ancora per 40 giorni”). St. Aupre: se quel giorno appare il sole, l’orso rientra nella tana e sta 40 giorni senza uscire. St. Pierre-de-Mésage: alla Candelora, se il cielo è coperto, l’orso esce dalla caverna e “fa la traccia” (nella neve) alla Vergine per la Purificazione; allora l’inverno è finito. Se il cielo è chiaro, si lecca la zampa e rientra nella caverna; ci saranno ancora 40 giorni d’inverno.Vaujany: se l’orso prende il sole alla Candelora si avranno ancora 40 giorni d’inverno. Vienne: quando gela per la Candelora l’orso rientra nella tana per 40 giorni. Voreppe: quando esce il sole per la Candelora l’orso rientra nella tana per 40 giorni.
Fontaine: alla Candelora il lupo esce dalla tana al mattino; se il cielo è coperto l’inverno è term (...)
Il proverbio francese, a partire dal xvii secolo, dice: Si fait beau et lui Chandelours-Six semaine (...)
1In due località, Fontaine e St. Jean-d’Avelanne3, è il lupo a rimpiazzare l’orso nel proverbio sulla Candelora, ma, secondo il Van Gennep, potrebbe essere un semplice errore di pronuncia, dal momento che in tutte le Alpi la regola è l’associazione della Candelora con l’orso.
Come accade anche in Savoia, si è cristianizzata l’antica credenza, associando l’orso alla Vergine e ai 40 giorni della sua Purificazione con una leggenda ad hoc. Inoltre vi sono, lungo tutto l’arco alpino occidentale, alcune leggende che pongono in relazione il “detto” sull’orso e un viaggio della Vergine, ma questo non pare essere che un tentativo di cristianizzazione, dovuto al fatto che il 2 febbraio è divenuto uno dei giorni, per eccellenza, dedicato a Maria, con il rito della Purificazione della Vergine, tratto dalla tradizione ebraica. In epoca primitiva l’orso era indipendente sia dalla Vergine che dalle candele della Candelora, che è senza dubbio, essa stessa, un adattamento delle fiaccole ebraiche.
Singolare appare anche a Porcieu-Amblaigneu la personificazione dell’orso con il sole, il che potrebbe far pensare a un’ipotesi di collegamento tra il culto dell’orso e quello del Sol Invictus o di culti mitrico-misterici o apollinei, ma non vi sono, allo stato attuale degli studi, sufficienti elementi per suffragare l’ipotesi, che solleva, tuttavia, un problema mitologico di grande interesse.
Oltre a due dei più originali carnevali alpini, la Valle di Susa può anche fregiarsi del suo particolare santo con l’orso, in comune con le terre delfinali. Difatti un’antica leggenda locale racconta che Arey, vescovo di Gap poi divenuto santo, verso il 600 si sarebbe trovato a valicare il Monginevro (che segna il confine tra Italia e Francia nella Valle della Ripa), di ritorno da Roma da un incontro con il Papa. Sant’Arey viaggiava con alcuni servitori su di un modesto carro trainato da due buoi; all’improvviso la piccola comitiva fu attaccata, proprio sul colle del Monginevro, da un feroce orso che sbranò uno dei buoi. Il sant’uomo a quel punto avrebbe ordinato all’orso di prendere il posto del bue ucciso e di trainare il carro, compito a cui l’orso sottostette mansueto, come se fosse domestico.
Esistono svariate versioni inerenti questa leggenda e una delle più accreditate riferisce che il gruppetto dovette sostare forzatamente a Crottes, a causa di una tremenda alluvione che aveva colpito il villaggio di Boscodon, dove sorgeva un’abbazia; mentre il vescovo trascorreva il tempo in preghiera, l’orso se ne andava a girovagare nelle foreste intorno, sinché scoprì una sorgente di acqua fresca e limpidissima.
La fonte divenne, in seguito, meta abituale delle passeggiate del santo, sempre accompagnato dall’orso, negli anni a venire. L’orso diventò anche familiare ai cittadini di Gap, che gli fecero dono di una catena d’oro e d’argento.
Alla morte di sant’Arey, l’orso partecipò al corteo funebre, trainando il carro con la salma del santo e poi disparve; qualcuno sostenne che l’animale continuò a errare per molto tempo, solitario e in preda alla disperazione, nei pressi della fontana. Solo molti anni dopo alcuni monaci dell’abbazia di Boscodon ritrovarono per caso la fonte, dissimulata sotto un mucchio di pietre, e, nelle vicinanze, una grotta con lo scheletro di Messer Bruno, che aveva ancora al collo la catena d’oro e d’argento. Fu data all’orso una pia sepoltura e l’abbazia di Boscodon, che attraversava un periodo di declino, iniziò nuovamente e rifiorire e divenne la più importante della zona. Si dice che anche il segreto rivelato da Arey all’orso fosse stato ritrovato scritto su una vecchia pergamena, ma non è dato conoscerne il contenuto.
Il tema di Jean de l’Ours è uno dei più diffusi nel folklore; lo si ritrova in Europa, in Asia, in (...)
Nei paesi occitani, a cui l’Alta Valle di Susa appartenne sino al 1713, anno del Trattato di Utrecht, nei secoli passati si narrava la storia di un “eroe popolare”, un certo Jean de l’Ours: si trattava di un essere ibrido, nato da una donna e da un orso, dotato di aspetto selvaggio e di forza straordinaria. Non può sfuggire il parallelismo tra questo personaggio e l’orso di Urbiano, dal momento che esistono svariate versioni della leggenda, ma vi è in tutte un denominatore comune: l’amore di Jean de l’Ours, l’essere selvaggio, per una bella fanciulla, amore che in alcune versioni lo fa redimere e lo porta a condurre una vita normale in seno alla comunità. Non sempre vi è il “lieto fine”: in alcune varianti l’orso va a vivere nelle “terre oscure”, come suo padre. François Rabelais nel Quinto libro di Pantagruel (Walter, 2005, p. 82) sostiene di riconoscere «entre le rochiers, un bon vieulx chemin de la Ferrière sus le Mont Cenis, créature de roy Artuis, accompagné d’un grand ours…» (“Ho riconosciuto tra le rocce, il buon antico sentiero della Ferriera, sotto il Moncenisio, creatura di re Artù, accompagnato da un grande orso…”).
Il personaggio di cui tratta Rabelais è certamente accostabile a Jean de l’Ours, poiché nel folklore francese tale eroe leggendario presenta molte analogie con Artù, che trae la sua natura sia dall’uomo che dall’orso e compie imprese coraggiose e dense di pericoli. Moncenisio e Ferrière paiono identificabili con due località della Valle di Susa che portano questi nomi, nei pressi del confine francese; si tratta di località che Rabelais doveva di certo conoscere, data la sua lunga permanenza a Lione e dati i suoi numerosi viaggi in Italia, e particolarmente quello del 1539 a Torino, al seguito di Guillaume du Bellay, signore di Langey e governatore del Piemonte.
Nel corso dei ripetuti viaggi è possibile che lo scrittore sia venuto a conoscenza di una leggenda-tradizione locale, che riferisce in una delle sue opere più conosciute; ciò testimonia, dunque, anche nelle terre al di qua delle Alpi, la diffusione di un topos particolare, che ispirò senza dubbio le feste dell’orso valsusine e/o ne trasse, di rimando, ispirazione.
Oggigiorno le tradizioni urbianese e condovese sono le uniche superstiti riguardanti la festa dell’orso, ma la memoria orale riferisce di analoghi rituali carnascialeschi a Sauze d’Oulx e in altre località dell’Alta Valle di Susa in periodi non troppo lontani nel tempo, sicuramente nel xix e xx secolo.
Presente nella catena alpina sin dalla preistoria, come attestano i ritrovamenti archeologici, sembra che uno degli ultimi orsi, un esemplare quasi addomesticato che si avvicinava pacificamente alle abitazioni, sia stato ucciso intorno al 1820 da un cacciatore nei pressi di Exilles, in Valle di Susa. Oggi, dunque, resterebbero solo più il Ballo dell’Orso a Urbiano e il Carnevale del Lajetto (Condove) a difendere la memoria di un re della foresta decaduto e rinato alle soglie del Novecento: un animale misterioso, che fu venerato e temuto, bistrattato e demonizzato.
Eppure, il suo culto è stato molto più radicato di quel che sembra: François Scepeaux de Vielleville (Pétiot, 1882) racconta che nel 1548, in occasione del passaggio del re Enrico II a Saint-Jean-de-Maurienne, il sovrano venne accolto da un centinaio di contadini travestiti da orsi «in modo così acconcio che li si sarebbe presi per orsi veri», che lo scortarono fino alle porte della cattedrale dietro a un’insegna dispiegata, dove si misero a danzare, spaventando i cavalli e causando anche dei feriti tra la popolazione. Enrico II, piacevolmente sorpreso, ordinò che venissero ricompensati con una notevole somma di denaro. Che questi uomini-orsi facessero parte di un gruppo (forse una badia) che aveva il ruolo di scandire certe fasi stagionali o certuni avvenimenti collettivi?
Secondo gli studiosi Gaignebet e Lajoux (1986, p. 157) questi “uomini-orso” facevano parte di un gruppo il cui ruolo era il fare da cornice ad alcuni avvenimenti collettivi, in questo caso il passaggio del sovrano francese, che, prendendo le parti degli orsi, accetta per un momento di ritornare alle origini selvagge del guerriero indoeuropeo. Nell’episodio su riportato, torna a farsi strada la nota figura del berserker e il simbolismo del travestimento con pelli animali.
È evidente che quella dell’orso è una delle maschere animali più diffuse nel folklore europeo e lungo tutto l’arco alpino, particolarmente in Piemonte, dove oggigiorno, in conseguenza del recupero di molte tradizioni locali, l’orso è protagonista indiscusso di molte performance carnevalesche e non solo, poiché, ad esempio, sino agli anni Trenta e Quaranta nel Mistero della Passione di Sordevolo, nel Biellese, era un uomo travestito da orso a recitare il ruolo di capo dei diavoli in piena liturgia teatrale.
Non si tratterebbe dell’unico caso di orso “demonizzato”: d’altra parte in Valle Leventina, nel Canton Ticino, nei processi quattrocenteschi alle streghe il diavolo è chiamato Ber ed è descritto con fattezze d’orso.Gradualmente, col trascorrere dei secoli, il rapporto tra l’uomo e l’orso mutò, anche sotto la spinta delle trasformazioni sociali-economiche-ambientali che orientarono gli uomini verso un minore panismo e verso una quasi totale dimenticanza del significato degli antichi simboli ursini: il passaggio dal paganesimo, dalla natura selvaggia degli animali totemici della cultura celtico-germanica alla natura più sorvegliata dei dissodamenti e delle innovazioni agricole (che allontanarono gli uomini dal contatto diretto con la terra) fu graduale, ma inarrestabile. Così andarono perduti il senso dei rituali arcaici, delle cerimonie agricole della fecondità, l’esperienza dei simboli.
Perciò le feste che oggi rievocano le antiche cerimonie rituali sono patrimonio prezioso che consentono al ricercatore di indagare sull’identità comunitaria e sulle sopravvivenze di un passato ormai irrintracciabile perché il più delle volte non è scritto nei documenti ufficiali, ma è affidato, appunto, alle rievocazioni, in cui sta allo studioso riconoscere e interpretare l’antico scisso dal “nuovo”, risalendo al sostrato originario sul quale si sono innestate le ritualità successive.
La Festa Dell'Orso nella tradizione Italica
Siamo giunti al termine di questo viaggio attraverso le feste dell’orso… nonostante la forte spinta dell’industrializzazione e dello spopolamento alpino, che hanno portato alla disgregazione delle vecchie comunità rurali e all’abbandono delle loro tecniche e dei loro cicli produttivi, le comunità prese in esame hanno conservato un forte legame con i riti arcaici che hanno ereditato dalle generazioni passate, e in taluni casi hanno portato alla nascita di una vera e propria “domanda” di esperienze comunitarie e festive che si è tradotta nella rivitalizzazione di un corpo di credenze e politiche simboliche che hanno la funzione di assicurare la relazione tra l’uomo e l’invisibile.
L’osservazione delle feste tradizionali del Piemonte, che racchiudono un complesso simbolico di gesti e oggetti rituali, permette di riconoscere un insieme di pratiche molto antiche, le cui radici sono ricollegabili a sopravvivenze di rituali precristiani che dovevano assicurare il passaggio della fecondità da un ciclo all’altro.
È sicuramente necessario, nello studio delle manifestazioni attuali, non trascurare l’analisi delle due differenti mentalità che sono entrate, e che entrano ancora oggi, in contatto in questi momenti di religiosità popolare: quella “alta” della Chiesa e quella “bassa” del ceto popolare, impregnata dal folklore e incline al magico. Una rivisitazione critica dell’incontro tra queste due concezioni del mondo che si sono compenetrate a vicenda era d’uopo, poiché esse hanno dato luogo a un sistema che pur evolvendosi ha continuato a riprodurre i suoi caratteri fondamentali.
La festa richiede un impegno culturale intenso e gli elementi che ne fanno parte possono presentarsi sotto diversi aspetti: tensione, sofferenza, dolore, elementi orgiastici. Si tratta di un rito che la comunità compie in comune, che annulla il tempo lineare per ricondurre a un tempo ciclico all’interno del quale ci può essere decadenza, ma anche rinascita: il loro eterno riproporsi rituale garantisce il continuo rigenerarsi delle energie umane.
C’è la festa in cui diventano protagoniste le maschere: indossare una maschera non vuol dire solo portarla sul volto, ma dentro sé stessi. Volontariamente si muta la propria personalità e si fanno emergere quelle pulsioni che di solito vengono tenute nascoste a tutti: viene a galla il “doppio” di una persona, l’“ombra” junghiana: ma poiché esso viene incanalato all’interno di un rituale sacrale, questo “io” pericoloso viene sorvegliato e la sua energia serve al rinnovamento del cosmo.
C’è poi la festa che celebra l’attesa della primavera, della rinascita: fiori e vino sono gli elementi che la caratterizzano. Ma fiori e vino sono anche le offerte funebri che si facevano ai morti, i cui spiriti si potevano incontrare per le strade.Vita e morte sono strettamente intrecciate in ognuna delle feste prese in esame: l’anno muore e nulla può assicurare la sua rinascita.È quindi necessario rinnovarlo, ma, per questo, è indispensabile disgregarlo nel caos primordiale, di modo che possa distruggersi e poi ristabilirsi: le forze disgregatrici devono quindi svolgere un ruolo funzionale alla società, di modo da compiere il ruolo a loro preposto.
Si tratta di quelle forze che vivono nella società e che sono pericolose per essa, ma che attraverso l’uso rigoroso del rito possono essere scatenate e imbrigliate di nuovo.
La ragnatela di nessi che intreccia le pratiche esplorate nel presente saggio riproduce parzialmente gli elementi che erano fondamentali nella cultura delle generazioni passate, a vantaggio di nuove relazioni dettate dal mutato spirito dei tempi: siamo davanti a una serie di contenuti culturali variabili, che hanno mutato la forma, lasciando pressoché intatta la sostanza, un complesso di relazioni che si connettevano con altri momenti della cultura popolare e all’interno del quale potevano trovare posto anche opposizioni con la cultura dominante.