Se prescindiamo dalla famiglia, la tribù è quasi certamente la più antica forma di società umana; oggi sussiste in forma piena solo in alcune popolazioni isolate, poco numerose e particolarmente arretrate, ma, seppure in forma attenuata e residuale, continua tuttora a svolgere un ruolo di rilievo in non pochi paesi in via di sviluppo, e si potrebbe inoltre sostenere che ne rimanga il retaggio anche in molti tipi di comportamento sociale tuttora riscontrabili nelle società più sviluppate.

Introduzione

Se prendiamo in considerazione il mondo intero o anche solo il vecchio mondo, dobbiamo in ogni caso constatare che, almeno per una sua considerevole parte, tale parziale eclisse è un fenomeno relativamente recente, prevalentemente concentrato negli ultimi due o tre secoli; per millenni, prima di tale breve periodo, popolazioni organizzate in tribù sono state largamente presenti in molte zone e hanno spesso svolto ruoli storici di primo piano.

Può quindi risultare sorprendente che l’argomento sia stato finora abbastanza poco studiato; senza dubbio sono state condotte approfondite analisi su tribù tuttora esistenti, appartenenti a popolazioni residuali rimaste a lungo isolate in vari angoli del mondo, ma, se i loro risultati possono essere interessanti da un punto di vista antropologico e sociologico, lo sono molto meno dal punto di vista storico: proprio a causa della sua durata nel tempo ed estensione nello spazio, siamo infatti tenuti ad attribuire al fenomeno tribale una forte variabilità di forme, ed è quindi difficile che gli studi di cui sopra possano darci delle indicazioni utili riguardo alle popolazioni tribali storiche, ossia a quelle che hanno svolto un ruolo storico fino a tempi relativamente recenti.

A queste peraltro, se non vado errato, gli storici hanno dedicato un’attenzione piuttosto scarsa, comunque non proporzionale all’importanza dei ruoli che hanno svolto nel corso del lungo arco di tempo in cui hanno rappresentato un’alternativa ancora vitale nei confronti di altre, meno antiche forme di società.

Di tale fatto si può dare una spiegazione che mi sembra piuttosto evidente: sono infatti queste altre forme di società che, anche se possono essere fra loro distinte e classificate in vario modo, vengono abitualmente comprese sotto il termine “civiltà” ed è alla civiltà o, più precisamente, “alle civiltà” che gli storici si sono soprattutto dedicati; a questa scelta, del resto, sono stati in certa misura costretti dal fatto pratico che le società tribali, rispetto alle altre, hanno lasciato infinitamente meno materiale archeologico, letterario o di qualsiasi altro genere, che potesse divenire oggetto di studio da parte loro.

Si può però forse aggiungere un’altra ragione: fino a tempi recenti la storiografia è stata in larga misura eurocentrica, e si dà il caso che in Europa, fin dai tempi delle “Vőlkerwanderungen”, fatte salve alcune zone marginali, di popolazioni tribali non vi sia stato più traccia.

In ogni modo mi sembra legittimo il sospetto che questo disinteresse abbia portanto a sottovalutare l’importanza del fattore tribale anche in contesti in cui esso non era invece affatto trascurabile; non mi riferisco tanto alle invasioni effettuate o agli imperi creati da popolazioni tribali, per esempio dai Turchi e dai Mongoli, fenomeni macroscopici che non potevano certo sfuggire all’attenzione degli storici, quanto all’impronta che le presenze tribali e/o la permanenza di tradizioni e comportamenti sociali ad esse risalenti hanno lasciato a lungo, talvolta fino a oggi, in molte “civiltà”, ossia in società non tribali, o che almeno non sono di solito considerate tali.

Mi sembra anzi probabile, data la lunghissima durata della forma tribale, che certe sue tracce permangano, a livello inconscio, in tutte le società attuali, anche in quelle che, come le europee, l’hanno abbandonata da lungo tempo; penso ad esempio alla tendenza, affiorata più volte anche in tempi recentissimi, a vedere una data nazionalità come basata sulla comunità di sangue, piuttosto che su quella di territorio, cultura, tradizioni, lingua ecc., e a certi comportamenti degli aderenti a partiti o movimenti politici, che, a volte, non saprei come definire se non “tribali”; è però logico prevedere che tali tracce debbano presentarsi con forza e potere di condizionamento maggiori in quelle società in cui la scomparsa delle organizzazioni tribali è più recente o non è ancora completa.

Sarà quindi opportuno, prima di procedere, un rapido sguardo d’assieme, limitato alle società del Vecchio Mondo, per vedere come esse si differenziano da questo punto di vista. Se fotografiamo la situazione come si presentava intorno al 1000 d. C., notiamo anzitutto, agli estremi orientale e occidentale dell’Eurasia, due gruppi di società, quello cinese/giapponese e quello europeo, in cui la forma tribale, salvo qualche zona marginale, era già da tempo scomparsa; lo stesso mi sembra si possa dire per il subcontinente indiano e anche per tutta l’area indocinese e indonesiana, anche se qui le suddette zone marginali appaiono più estese e resistenti che altrove. Nell’immenso spazio che separa l’Europa dalla Cina, la zona delle steppe che si stende dalla Grande Muraglia fino al Dnepr, vediamo invece prevalere popolazioni di allevatori nomadi, invariabilmente organizzati in tribù.

Nell’area islamica, estesa dall’Hindukush al Marocco, ci troviamo poi di fronte a una situazione più complessa e problematica: da un lato, infatti, quest’area è sede di stati ben organizzati e altamente civilizzati, di numerose e popolose città e di popolazioni di agricoltori sedentari, quali quelle dell’Iraq e dell’Egitto, fra le quali l’organizzazione tribale è venuta meno da millenni; dall’altro però:

- Nell’area iranica esistono certamente estese sacche tribali (per esempio i Curdi o le popolazioni delle montagne a sud del Caspio), corrispondenti a popolazioni sia di agricoltori sedentari che di pastori nomadi.

- L’Arabia vera e propria è sede quasi esclusiva di allevatori nomadi (beduini), le cui tribù spingono le loro greggi fino ai limiti delle terre agricole della Mezzaluna Fertile, dove a volte si infiltrano più o meno pacificamente, a volte irrompono con la forza.

- Anche in Egitto tribù di Arabi beduini si aggirano in modo analogo ai margini della valle del Nilo.

- A eccezione di poche e relativamente ristrette zone di agricoltura intensiva, il Maghreb èappannaggio di un gran numero di tribù berbere, agricoltori e/o pastori sedentari nelle zone più vicino al mare e più piovose, allevatori nomadi negli altipiani più a sud e, a maggior ragione, ai margini del Sahara.

- Infine nell’Africa a sud del Sahara, accanto a poche forme politiche più evolute (Etiopia, Ghana), la forma tribale è generalmente prevalente.

Abbiamo quindi una quasi generale compresenza a macchie di leopardo fra zone tribali e zone dove si sono da tempo affermati altri tipi di struttura sociale.

Se ora prendiamo in considerazione le vicende del secondo millennio, notiamo che:

- Nella maggior parte della zona delle steppe la forma tribale ha continuato a sussistere fino a tempi molto recenti e anche ora è tutt’altro che dimenticata nella zona nord-caucasica, nelle repubbliche ex-sovietiche dell’Asia Centrale, in Mongolia e nella provincia cinese del Xinjiang.

- Nella prima metà del millennio in Iran e nel Medio Oriente (in cui occorre ora includere anche l’attuale Turchia) si assiste a una rilevante accentuazione del fattore tribale, conseguenza delle successive ondate di invasione dei Turchi e dei Mongoli, cioè di popolazioni tipicamente tribali di allevatori nomadi; nella seconda metà del millennio la tendenza si inverte, ma piuttosto lentamente, cosicché, in molti parti di questa zona, sono tuttora presenti forti sopravvivenze tribali.

- Mentre in Egitto la situazione rimane all’incirca invariata, anche il Maghreb conosce una forte accentuazione del fattore tribale, determinata dall’irruzione, nell’XI secolo, delle tribù di beduini arabi dette “hilaliane” (Così dette dalla tribù dei Banu Hilal; in realtà però questa era una sola delle numerose tribù di beduini arabi che, a partire dal 1053, invasero il Maghreb devastandolo gravemente e a lungo, soprattutto nella sua parte orientale), e dai loro successivi spostamenti fino all’Atlantico; anche qui il tribalismo regredisce lentamente nella seconda metà del millennio, senza peraltro sparire del tutto.

- Nell’Africa a sud del Sahara la situazione rimane sostanzialmente invariata fino all’arrivo degli Europei nel tardo XIX secolo.

E’ quindi abbastanza chiaro quali sono le zone dove dobbiamo aspettarci di trovare, anche nei costumi e comportamenti sociali attuali, le più forti tracce di un passato tribale; Asia Centrale, paesi islamici dall’Hindukush al Marocco (con la parziale eccezione dell’Egitto), Africa a sud del Sahara.

Ma quale forma hanno queste tracce, come si manifestano nella società? E, risalendo ancora più a monte, cosa contraddistingue una società tribale, in che cosa essa si differenzia dalle altre forme di società?

Probabilmente una risposta generale e univoca a queste domande non esiste, a causa della già accennata forte variabilità del fenomeno nel tempo e nello spazio, ma è forse possibile dare una risposta un po’ meno negativa se, come intendo fare d’ora in avanti, ci si concentra su una zona più ristretta, quella che corrisponde al mondo islamico classico, dall’Hindukush al Marocco, che è peraltro solo una parte del molto più esteso mondo islamico di oggi; come abbiamo appena visto è
questa una zona in cui popolazioni tribali hanno sempre interagito, a volte in modo molto intenso, con altri tipi di società, e per cui quindi, soprattutto grazie alle fonti provenienti da queste ultime, disponiamo di una messe relativamente copiosa di informazioni.

Queste riguardano soprattutto tre diversi gruppi di popolazioni tribali, quelle turco-mongole originarie dell’area delle steppe, gli Arabi di gran parte della penisola arabica e gran parte dei Berberi del Maghreb; sono questi tre gruppi infatti che, per quanto ben lungi dall’esaurire l’elenco delle popolazioni tribali presenti nell’area, più frequentemente si sono presentati alla ribalta della storia.

Particolarmente importanti e ben documentate sono alcune fasi della loro storia che qui mi limito ad accennare.

Per quanto riguarda gli Arabi, oltre, naturalmente, alle grandi invasioni del VII secolo, che portarono alla costituzione dell’impero universale dei califfi, occorre tener presente anche l’irruzione in Ifrīqya, nell’XI secolo, delle già citate tribù hilaliane (vedi nota 1), destinata a estendersi successivamente all’intero Maghreb.

Per le tribù turco-mongole abbiamo tre fasi principali, corrispondenti ad altrettante ondate di invasione: quella selgiuchide nell’XI secolo, quella dei Mongoli di Gengis Khan nel XIII e quella di Tamerlano alla fine del XIV secolo.

Nel mondo berbero infine incontriamo anzitutto, nel X secolo, l’epopea dei Kutama, che diede luogo alla formazione del califfato fatimide, poi, nell’XI secolo, quella delle tribù sahariane che fondarono l’impero almoravide, infine, nel XII secolo, quella delle tribù Masmuda dell’Alto Atlante che fondarono l’impero almohade.

Naturalmente fra questi episodi, così lontani fra loro nel tempo e nello spazio, esistono notevoli differenze.

Ad esempio nella maggioranza dei casi ne furono protagoniste tribù di allevatori nomadi, tuttavia sia i Kutama che i Masmuda (due casi su otto) erano coltivatori e pastori sedentari; risulta quindi evidente che il fenomeno, così spesso ripetutosi, per cui una popolazione tribale prendeva la via delle conquiste e dell’impero non era necessariamente legato al nomadismo, anche se questo ha costituito senza dubbio un elemento facilitante, se non altro per la disponibilità di buone cavalcature e la dimestichezza con le relative tecniche di combattimento, che la vita nomade comportava.

In genere le fasi di conquista furono precedute da un processo più o meno forzoso di unificazione di una popolazione tribale priva, fino ad allora, di vera unità politica, ma questo non è il caso degli hilaliani, le cui tribù continuarono a muoversi in ordine sparso prima, durante e dopo la fase di conquista; il processo di unificazione, quando ebbe luogo, fu sempre opera di un capo di eccezione, di un personaggio carismatico, ma in quattro casi (i tre casi berberi e, naturalmente, quello dell’ascesa di Maometto) l’azione di quest’ultimo si appoggiò su un forte messaggio di natura religiosa, mentre ciò non si verificò, se non in misura modesta e strumentale, nei casi dei TurcoMongoli; in qualche caso, ma non in tutti, l’azione del demiurgo fu legittimata dal richiamo a unaqualche forma, storica o mitica, di precedente unità.

Tribalismo: Storia e Sviluppo

Tuttavia queste molteplici differenze (e se ne potrebbero aggiungere altre) non devono nasconderci gli aspetti comuni che si riscontrano nell’organizzazione, nella mentalità e nel comportamento delle popolazioni interessate, aspetti comuni che permettono, mi sembra, di definire in termini abbastanza generali le caratteristiche di una popolazione tribale, quanto meno relativamente alle epoche e all’area considerata.

Naturalmente anche le tribù evolvono nel tempo e l’evoluzione è particolarmente rapida e importante nei casi che, come per gli otto esempi storici sopra elencati, sono caratterizzati da un processo dinamico del tipo: stato originario – unificazione (salvo gli hilaliani) – conquista; ma anche le altre popolazioni tribali, che hanno avuto una storia meno drammatica, hanno dovuto, prima o poi, entrare in rapporti con degli “stati”, negoziare con loro una qualche forma di modus
vivendi, e ciò ha inevitabilmente modificato, in una qualche misura, la loro visione del mondo e la loro organizzazione.

Ma cominciamo dalle notizie che abbiamo sul loro “stato originario”.

Un fatto generale che emerge da tutte le fonti è che la popolazione tribale e le tribù che la compongono vedono sé stesse come una specie di famiglia allargata, che i loro membri sono convinti di discendere da un unico antenato e attribuiscono a questo supposto vincolo di parentela un’importanza tale da far sì che il loro agire ne risulti fortemente determinato e condizionato, e questo non solo nello stato originario ma, in buona misura, anche nelle fasi successive.

Non so se questo possa essere vero anche in generale, per le tribù di qualsiasi epoca e parte del mondo, e dubito che esistano elementi sufficienti per potersi pronunciare al riguardo in modo categorico; tuttavia non è impossibile e sarebbe comunque ben comprensibile se l’umanità primitiva, nel formare i suoi primi raggruppamenti sociali, fosse stata portata a vederli come un’estensione dell’unica società umana preesistente e quindi nota, la famiglia.

In ogni caso nel Medio Oriente questa concezione ci si presenta fin dai tempi più antichi: gli Ebrei, senza dubbio, ai loro inizi, una popolazione tribale, si consideravano i discendenti di un unico antenato, Giacobbe, e i gruppi sociali in cui il loro popolo era suddiviso, ossia le loro tribù, erano viste come le discendenze di dodici fratelli, i figli di Giacobbe; non mi sembra dubbio che la stessa concezione debba essere attribuita anche all’intera ondata migratoria degli Aramei, di cui in fondo, pur differenziandosene per certi aspetti, gli Ebrei facevano parte.

Le ondate di conquista arabe, che diedero origine a quello che oggi chiamiamo il mondo islamico, erano essenzialmente costituite da tribù di allevatori nomadi, anche se erano inquadrate e guidate da una ristretta elite, religiosamente motivata, di origine cittadina e mercantile; anche gli Arabi sentirono allora la necessità di presentarsi come discendenti di un unico antenato, Ismaele, figlio di Abramo e della schiava Agar, ma anche prima le loro tribù custodivano gelosamente complesse tradizioni genealogiche, che furono poi messe per iscritto e variamente rielaborate da una serie impressionante di genealogisti o anche di storici di valore, i quali però, come Ibn Khaldūn, erano anch’essi portati a vedere la genesi dei popoli in termini puramente genealogici.

In un contesto completamente diverso, una visione del mondo sotto questo aspetto analoga emerge anche dalla Storia segreta dei Mongoli, dove si narra delle origini del popolo mongolo e delle gesta del futuro Gengis Khan (tratto da Storia segreta dei Mongoli, trad. dal russo a cura di M.OLSUFIEVA di Sokrovennoe skazanie, Mongol’skaja chronika,Milano 1973); e concezioni analoghe si manifestano chiaramente anche nell’area berbera, anche se si può discutere su quanto di esse facesse parte di una tradizione autoctona e quanto derivasse dalla forte influenza culturale araba.

E’ da questa fondamentale concezione che occorre partire, a mio avviso, per cercare di comprendere le società tribali: essa determina infatti non solo il loro rapporto col mondo esterno, ma anche i rapporti fra tribù e tribù e quelli interni alle tribù medesime.

Grosso modo possiamo rappresentarci una popolazione tribale come strutturata secondo il seguente schema: alla base di tutto c’è naturalmente la famiglia, in genere una famiglia allargata di tipo patriarcale, vengono poi il clan, costituito da più famiglie discendenti da un unico antenato, la tribù (in arabo qabīla) che raggruppa un certo numero di clan, i cui capi a volte si riuniscono in assemblea (arabo jamā’a) per discutere delle questioni comuni, e infine l’intera popolazione, cioè il gruppo di tribù che si riconoscono parte di essa.

Naturalmente anche i clan di una data tribù si considerano tutti discendenti da un unico antenato, così come tutte le tribù si considerano discendenti dall’unico antenato dell’intera popolazione, tuttavia si tratta di personaggi via via più lontani nel tempo, dai contorni sempre più vaghi o puramente mitici; non di rado, soprattutto fra i Turco-Mongoli, l’antenato lontano dell’intera popolazione è un animale leggendario.

Il legame di solidarietà familiare dovuto alla comune discendenza si indebolisce quindi progressivamente man mano che si passa dai livelli inferiori a quelli superiori della struttura; è fortissimo a livello di clan, lo è già molto meno a livello della tribù e può diventare quasi impalpabile a quello dell’intera popolazione.

La discendenza, il lignaggio costituiscono altresì il fattore principale che determina la posizione sociale degli individui e delle famiglie: su questa base alcuni clan sono considerati più nobili di altri e, all’interno di ogni clan, alcune famiglie hanno la preminenza rispetto alle altre; queste posizioni privilegiate tendono a mantenersi da una generazione all’altra perché è proprio ai membri delle famiglie e dei clan dominanti che spetta naturalmente di agire in nome della comunità, ove se ne presenti la necessità.

Occorre inoltre tener presente che, quanto meno nel loro stato originario, le tribù vivono in uno stato di belligeranza pressoché continua, peraltro di basso livello e almeno parzialmente ritualizzata; si tratta prevalentemente di faide fra tribù e/o di razzie che danno luogo in genere a scarse perdite e permettono di sfogare la naturale aggressività e la sete di bottino dei giovani guerrieri; molto spesso le razzie sono iniziative non dell’intera comunità ma di un singolo individuo che abbia il prestigio necessario per mobilitare un numero sufficiente di seguaci, il ché implica necessariamente la sua appartenenza a qualche famiglia illustre; una razzia di successo, che abbia cioè causato poche perdite e portato un buon bottino (bestiame, schiavi, donne destinate a diventare mogli o concubine dei razziatori) accresce d’altra parte ulteriormente il prestigio di colui che l’ha guidata, della sua famiglia e del suo clan, oltre ad arricchirlo grazie alla sua parte di bottino.

Si configura così una società aristocratico/gentilizia, dove anche la condizione economica, determinata largamente se non esclusivamente da bestiame e schiavi, è strettamente legata al lignaggio; intorno a queste famiglie aristocratiche si raggruppano naturalmente, in una rete di clientele, gli altri membri liberi dei clan, che cercano appoggio e protezione.

Di questa classe aristocratica fanno parte anche i religiosi, il ché significa gli sciamani per i TurcoMongoli nella fase preislamica della loro storia, e i conoscitori (veri o presunti) delle sacre scritture e del diritto islamico in tutti gli altri casi; del resto non c’è niente che vieti a un capo religioso di proporsi anche come capo politico e militare e anzi, a cominciare dall’esempio paradigmatico di Maometto, ciò è stato fatto ripetutamente e con successo.

Sono conseguentemente i capi delle famiglie aristocratiche che dominano all’interno dei clan e, come corpo collettivo in genere informale, assicurano all’intera tribù quel tanto di “governo” di cui può aver bisogno; a livello dell’intera popolazione tribale è invece raro che esistano forme di organizzazione politica comunitaria; succede a volte che un capo particolarmente prestigioso, sotto l’influsso di circostanze eccezionali, pervenga a farsi riconoscere una qualche misura di autorità sull’intera popolazione, ma tutto torna poi come prima alla sua morte, anche se la sua memoria storica può talvolta, a distanza di generazioni, servire di stimolo per nuovi tentativi di unificazione. Nei confronti del mondo esterno, anche quando si tratti di altre popolazioni tribali che appaiono a noi storicamente, culturalmente e linguisticamente affini, l’atteggiamento prevalente è di chiusura e di ostilità: in generale, se nei confronti di chi appartiene alla propria popolazione tribale si sente l’obbligo di rispettare certe norme di comportamento, queste decadono completamente quando si ha a che fare con chi non ne fa parte; lo si può quindi uccidere o depredare senza alcune remora di carattere morale e solo il timore e la probabilità di un’efficace rappresaglia possono servire da freno.

Questo atteggiamento emerge chiaramente già in certe pagine dell’Antico Testamento, quelle più vicine allo “stato originario ”delle tribù ebraiche, nelle quali Geova non solo tollera ma a volte addirittura ordina l’uccisione e perfino il genocidio dei non ebrei; in generale mi sembra si possa dire che la mentalità tribale tende a esasperare la dicotomia noi-loro.

L’adozione della religione islamica, che riguarda, in tempi e fasi diverse, tutta l’area e le popolazioni qui considerate, deve naturalmente essere considerata un fattore quanto meno di attenuazione di questa forma mentis: quella fondata da Maometto è infatti una religione universalistica, nel senso che sposta il confine noi-loro, almeno teoricamente, fino a farlo coincidere con l’intera comunità dei credenti, la umma; attenua inoltre in una qualche misura tale confine, prescrivendo tolleranza e rispetto almeno per i “popoli del libro”, cristiani ed ebrei; e tuttavia un’esperienza storica secolare mi sembra dimostri chiaramente che questa attenuazione è stata molto parziale e che l’egoismo di gruppo proprio della tribù è rimasto ovunque forte, contagiando forse anche settori non tribali della società. 

L'Organizzazione di Comunità Tribali

Fin dai tempi più remoti l’area qui considerata è stata sede di stati notevolmente solidi e organizzati, spesso di dimensioni grandiose; per le tribù che vi abitavano o che vi sono penetrate si è quindi posto, assai di buon ora, il problema del rapporto con lo stato, un rapporto che non è mai stato facile e ha più volte dato luogo a contrapposizioni violente; lo stato infatti tende, per sua natura, a interagire direttamente con gli individui suoi sudditi e a regolarne i rapporti mediante leggi e giudici di propria emanazione; il suo pieno sviluppo comporta quindi, necessariamente, l’indebolimento e da ultimo la completa dissoluzione delle strutture tribali e di tutto il sistema di obblighi reciproci e lealtà di cui la tribù è portatrice; la tribù, per contro, tende a esercitare un controllo esclusivo sui propri membri e si sforza, per quanto possibile, di indurre lo stato a riconoscerle questo ruolo.

In sette degli otto casi menzionati nel Cap.1, popolazioni tribali hanno dato al problema la soluzione più drastica possibile, in quanto, attraverso un processo di unificazione e conquista sono pervenute esse stesse a costituire un proprio stato, anzi addirittura un impero; sebbene relativamente frequente, questo è però ben lungi dal rappresentare il caso tipico; nella gran maggioranza dei casi tribù e stato hanno dovuto trovare un qualche modo di convivere, in un equilibrio spesso instabile a causa della variabilità dei rapporti di forza, e questo è vero in fondo, come vedremo meglio in seguito, anche
per il caso un po’ particolare delle tribù hilaliane.

Ma occupiamoci prima delle popolazioni tribali che furono in grado di fondare un proprio stato: in tutti e sette i casi considerati ci troviamo dunque di fronte a un processo in due fasi, unificazione e conquista; la prima di queste fasi è invariabilmente difficile e lunga (come minimo un decennio) e spesso imperfettamente nota, perché poco studiata e documentata dalle fonti su cui si basano gli storici, ma dà comunque luogo a una comunità di tipo nuovo, fortemente accentrata sotto la guida di
un capo carismatico.

Che una tale trasformazione fosse di per sé di non facile realizzazione risulta chiaro già da quanto si è detto nel precedente capitolo; non era infatti sufficiente raggiungere, come talvolta era avvenuto in passato, una momentanea unità basata sul consenso dei capi clan tradizionali, che si sarebbe presto di nuovo disciolta; si trattava invece di imporre una nuova disciplina e quindi di sostituire alla gerarchia del lignaggio una nuova gerarchia, basata esclusivamente sul merito individuale e la
fedeltà al capo, quindi di realizzare una vera e propria rivoluzione nei costumi e nell’organizzazione
della popolazione tribale.

E’ quindi ben comprensibile che, nella maggioranza dei casi, ciò sia potuto avvenire solo grazie a un forte messaggio religioso, capace di annullare il peso della tradizione sulla quale si
appoggiavano le resistenze.

I tempi della fase successiva, quella della conquista, sono invece di solito sorprendentemente rapidi; la combinazione della nuova unità di comando con gli atavici istinti aggressivi e col tradizionale spirito di coesione tribale (la asabiyya di Ibn Khaldūn) rendono la nuova formazione pressochè invincibile, cosicché in pochi anni o al massimo decenni vengono creati imperi di portata regionale o addirittura mondiale.

Le conquiste sono inoltre, in un certo senso, una strada obbligata, perché solo esse permettono di dare uno sfogo al desiderio di bottino e all’entusiasmo religioso (quando esiste) e di scaricare all’esterno le tensioni create all’interno dal violento processo di unificazione.

D’altra parte il processo di formazione dell’impero e anzi, ancora prima, quello di unificazione, comportano invitabilmente lo sfaldamento, parziale o totale, della popolazione tribale originaria, della sua identità e delle sue tradizioni: in qualche caso estremo, come per esempio quello dei Kutama,la popolazione tribale si trasforma quasi interamente nella classe dirigente e militare dell’impero che ha creato, cosicché il suo nome scompare dalla storia; nel caso più generale una parte delle famiglie e dei clan va a costituire il nucleo dirigente e dominante dell’impero, mentre la maggioranza delle tribù acquisisce, in questa o quell’altra provincia di questo, posizioni più o meno ufficiali di potere locale, che permettono ai loro capi di estrarre, a vantaggio proprio e dei propri contribuli, una parte significativa del surplus prodotto dalle popolazioni soggette della provincia stessa.

Nel caso in fondo più tipico, quello delle tribù di allevatori nomadi, queste si impadroniscono dei terreni da pascolo della regione, magari estendendoli a scapito dei coltivi, per allevarvi le proprie greggi; vivono quindi in parte dei frutti del proprio lavoro di allevatori ma, per un’altra parte di non secondaria importanza, sfruttano il lavoro delle popolazioni sedentarie della zona.

Questa è anche la situazione finale raggiunta dalle tribù hilaliane: come si è detto queste non costituirono mai una forza unitaria, coalizzandosi a volte solo parzialmente e temporaneamente in particolari situazioni di emergenza, ma ciò non impedì loro di impadronirsi, già nell’XI secolo, di gran parte dell’Ifrīqya (attuale Tunisia); in seguito esse vennero inevitabilmente a urtarsi con il sovrano Almohade Abd al-Mumin, che si sforzava di affermare il suo dominio sull’intero Maghreb e che le sconfisse a Setif (1153); tuttavia le risorse militari delle tribù interessavano molto ad Abdal-Mumin, che intendeva servirsene oltre mare contro i cristiani di Spagna ma anche, eventualmente, contro i nemici interni, ed egli ritenne quindi opportuno stabilire con loro unaccordo che gli assicurasse la loro collaborazione; la cosa si ripetè sotto i suoi successori e sotto levarie dinastie che si divisero il Maghreb dopo il crollo del potere Almohade, col risultato che le tribù beduine arabe si diffusero fino all’Atlantico;

insieme ad altre tribù nomadi di etnia berbera, esse vennero a costituire il così detto maghzen, il sistema di potere su cui si reggevano le varie monarchie; i loro capi sono vassalli del sovrano ma detengono un potere autonomo che deriva loro
dal controllo della tribù; liberi da ogni obbligo fiscale essi usano invece la forza militare della tribù per imporre, con metodi che sconfinano a volte nella razzia, esazioni fiscali alle tribù sottomesse, le tribù raiya, in genere costituite da contadini sedentari ; ciò avviene per conto del sovrano manaturalmente una parte significativa del ricavato va alle tribù e ai loro capi.

Possiamo anche dire, più in generale, che, intorno alla metà del secondo millennio, questo stesso tipo di rapporto con lo stato caratterizza la maggior parte delle tribù, e soprattutto quelle nomadi, in tutta l’area considerata; ora naturalmente le tribù non si trovano più nel loro stato originario, anche se vi rimangono per molti aspetti vicine; per esempio è probabile che la necessità di confrontarsi ed eventualmente di negoziare con lo stato le abbia gradualmente portate a darsi un’organizzazione maggiormente monarchica, intorno a capi che peraltro fanno parte dell’aristocrazia gentilizia tradizionale.

Ovviamente il pur parziale processo di consolidamento e modernizzazione degli stati, verificatosi negli ultimi secoli più o meno in tutta l’area, ha progressivamente messo in crisi le strutture tribali e ha ridotto la capacità delle tribù di porsi come controparte dello stato; nella stessa direzione ha agito la progressiva urbanizzazione poiché, come è facile capire, questa tende a dissolvere i legami tribali e a sostituirli con altri di natura del tutto diversa.

Tuttavia, nella maggior parte dei casi, il processo appare ben lungi dall’essere completo e il fattore tribale continua a mantenere una sua tenace presenza nella società: ancora negli anni venti del XX secolo il fondatore dell’ultima monarchia persiana, Reza Shah, dovette agire anche militarmente contro varie tribù (Bakhtiari, Lur, Shahsevan ecc); del resto anche in questi ultimi anni abbiamo visto come le forze di occupazione occidentali in Iraq e Afghanistan abbiano dovuto venire a patti con la tale o talaltra tribù, e, nei mesi della guerra civile libica, gli articoli dei nostri giornali ci hanno spiegato quanto fosse importante l’atteggiamento che avrebbero assunto le varie tribù del paese; l’Arabia Saudita e i paesi del Golfo sono chiaramente dominati, si potrebbe quasi dire posseduti, da pletorici clan reali o emirali, vere e proprie tribù al potere.

Più in generale si ha l’impressione che la maggior parte dei vari raggruppamenti politico-sociali, anche se di natura non tribale, sia determinata nella propria azione da una mentalità di tipo tribale, che tende a vedere nella lotta politica un puro scontro di potere e un giuoco a somma zero.

E’ chiaro, infine, che l’importanza e la lunga persistenza del fattore tribale hanno avuto effetti rilevanti sull’evoluzione economica dell’intera area: quelli più diretti e macroscopici sono legati al fatto che la maggior parte delle tribù e quasi tutte quelle più potenti e influenti erano costituite da allevatori nomadi, il ché non ha certo favorito il progresso dell’agricoltura; come già accennato le tribù nomadi prelevavano spesso a proprio vantaggio una parte consistente del surplus generato dagli agricoltori sedentari della loro zona, non di rado con metodi alquanto arbitrari; erano inoltre naturalmente portate ad ampliare le zone adibite a pascolo, di cui usufruivano direttamente, a scapito dei coltivi; più in generale è probabile che il loro modo di sfruttare il territorio abbia contribuito in misura non trascurabile al processo di inaridimento riscontrabile un po’ in tutta l’area,in modo particolare in Siria-Palestina, nel Maghreb e in certe parti dell’Iran.

Più impalpabile è l’effetto che può aver avuto, sull’agricoltura, l’atteggiamento mentale dei molti proprietari o feudatari di origine nomade; è quanto meno plausibile pensare che, spesso se non sempre, essi si siano lasciati guidare da una strategia di puro sfruttamento, poco attenta alle necessità di medio e lungo periodo, e siano stati portati a trascurare gli investimenti e lamanutenzione richiesti da ecosistemi spesso fragili.

Sono dunque molteplici, in conclusione, le ragioni che inducono a vedere il fattore tribale come un’importante concausa della stagnazione delle società dell’area considerata, della lentezza e delle difficoltà della loro modernizzazione.

(Neo)Tribalismo nelle Libere Comunità

Nel corso di questo articolo abbiamo visto le origini del fenomeno del tribalismo, ma cosa significa noi comunitaristi libertari l'organizzazione tribale?

La parola tribalismo può riferirsi a due relativi ma distinti concetti:
Il primo è un sistema sociale costituito da piccoli gruppi sostanzialmente indipendenti, chiamati tribù. Le società tribali mancano di ogni livello organizzativo al di sopra di quello locale della tribù. La struttura sociale interna di una tribù può variare grandemente di caso in caso; date le piccole dimensioni delle tribù, in ogni cosa, anche la sua struttura è sempre relativamente semplice, con pochi livelli sociali e distinzioni tra individui.

Alcune tribù sono particolarmente egalitarie, e nella maggior parte dei casi esiste al più solo una vaga nozione della proprietà privata. Questo tipo di struttura sociale è la più antica nella storia dell'uomo, e rimase predominante per la maggior parte della storia umana. Alcuni gruppi etnici hanno conservato questo tipo di struttura sociale fino a oggi.

La parola tribalismo può anche essere impiegata per riferirsi all'idea di forte identità culturale o etnica, e di contrapposizione dei "simili" ai "diversi". Questo fenomeno è comune nelle società tribali, e in effetti costituisce una precondizione per l'esistenza stessa del concetto di tribù, che è per l'appunto un gruppo di "simili" isolati. Se lo si intende in senso sufficientemente ampio, si può sostenere che il tribalismo (in questa accezione) esista ancora in diverse forme anche nelle società più "avanzate".

Mentre etnocentrismo è uno solo dei molti piccoli metodi di aggregazione della cultura universale umana, il termine "tribalismo" è diventato una specie di sinonimo. Questo è dovuto largamente all'Eurocentrismo dei primi antropologi che spinsero le società tribali in un semplicistico modello di evoluzione culturale.

Molte tribù riferiscono a loro stesse con la parola che nel loro linguaggio significa "gente", mentre si riferivano alle tribù vicine con vari altri epiteti. Per esempio, il termine "Inuit" tradotto come "popolo," ma essi erano conosciuti agli Ojibwe con un nome che, tradotto nella loro lingua, significa "mangiatori di carne cruda." Questo fatto è spesso citato come evidenza che i popoli tribali vedevano solo i membri della loro tribù come "popolo", e denigravano tutti gli altri come qualcosa di inferiore a loro. Infatti, questa è una tenue conclusione che viene tracciata dall'evidenza. Molti linguaggi raffinarono la loro definizione come "il vero popolo," o "il solo popolo," facendo capire che vi erano altre popolazioni che erano semplicemente inferiori. In questo è praticamente evidente l'etnocentrismo, una cultura universale caratteristica trovata in tutte le società.

Nelle scienze etnoantropologiche e nelle altre scienze sociali l'identità riguarda, per un verso, il modo in cui l'individuo considera e costruisce se stesso come membro di determinati gruppi sociali (nazione, classe sociale, livello culturale, etnia, genere, professione, e così via) e, per l'altro, il modo in cui le norme di quei gruppi fanno sì che ciascun individuo si pensi, si comporti, si situi e si relazioni rispetto a se stesso, agli altri, al gruppo a cui afferisce e ai gruppi esterni intesi, percepiti e classificati come alterità. Se teniamo in considerazione l'aggettivo 'identitario', che significa relativo all'identità socioculturale di un soggetto, il problema dell'identità nel comunitarismo libertario non sussiste come fattore a sè, essendo appunto legato alla società e alla cultura che hanno generato l'appartenenza all' "ideologia" del comunitarismo libertario.

Ma è altrettanto noto che con identitario ci si riferisca anche alla categoria antropologica d'origine, e quindi, della razza e/o etnia di appartenenza. La bellezza del comunitarismo libertario consiste nel fatto che le tribù (se preferite, comunità) possono essere create basandosi su qualsiasi valore. Fondamentalmente questo argomento ci dà l'opportunità per i colloqui più disparati e dunque potenzialmente aperti per delineare nuovi spazi da esplorare.

Le etnie sono in grado di perpetuarsi nel tempo in modo “plastico”; sono capaci di mutamento pur rimanendo se stesse. Mutano senza rinnegare la loro forma. Cambiano, ma senza soluzione di continuità. ma com’è possibile? La risposta: le etnie sono realtà organico-storiche. Sono, cioè, entità bioculturali. E' ovvio: tale definizione non è “innocente”. Presuppone l’accordo e non la scissione tra natura e cultura." (Giovanni Damiano)

Il comunitarismo libertario è una risposta perfetta all'anarchico tout-court con la sindrome dei suffissi: siamo circondati da anarco-capitalisti e anarco-comunisti, anarco-x ed anarco-y. Con il sistema creato dai comunitaristi libertari, ogni tribù può implementare qualsiasi sistema desideri: questo rende il lavoro attraverso le varie categorie decisamente più semplice.

È noto che però all'interno della galassia anarchica dall'altra parte ci sono quelli che non riescono a capire che ci possono essere persone che possono avere la libertà di crederlo, se lo desiderano, e vogliono usare la coercizione per risolvere il problema, ma in questo modo non se ne verrà mai a capo. Un dibattito basato sul rispetto potrebbe portare a qualcosa di costruttivo e forse di allineato, in caso contrario ognuno sarebbe libero di tornare alla propria comunità con le proprie convinzioni. Basta quindi specificare che non condanniamo chi opta per una scelta separatista identitaria né chi decide di costruire comunità basate su altri postulati (che in qualche modo diventano a loro volta identitari) come il veganesimo piuttosto che il paganesimo, l'ambientalismo piuttosto che l'antispecismo.

I comunitaristi libertari cercano di colmare i divari tra i diversi gruppi indipendenti che sono d'accordo su un principio: una radicale autonomia decentrata. La filosofia dei comunitaristi libertari è saldamente basata sui principi di libertà, libera associazione, decentramento, autonomia della comunità, sovranità locale/individuale, autodeterminazione ed aiuto reciproco: rifiuta tutte le misure coercitive per omolgare le diverse culture ed i diversi popoli indipendenti. L'attributo "nazione"(o meglio comunità) nel comunitarismo libertario non si riferisce a un governo, stato o confini arbitrari; piuttosto, una nazione o una tribù, è semplicemente una comunità o un gruppo di persone che lavorano insieme per stili di vita e obiettivi comuni. Le tribù possono essere create sulla base di fattori infiniti. Nessun elemento unificante deve essere ignorato o mancato di rispetto, in altre parole, tutto o nulla può essere una base per l'organizzazione tribale.

I comunitaristi libertari non sono razzisti, suprematisti, statalisti o totalitaristi (specifichiamo inoltre che razza ed etnia non vanno né confuse né giustapposte). Questo deve esere scandito a chiare lettere e riguarda tutti coloro che si definiscono comunitaristi libertari. Il che non significa negare la specificità delle diverse etnie che rappresentano uno dei patrimoni più generoso del pianeta, quello umano, né incoraggiare la politica mondialista dell'annientamento delle culture in virtù di un'agognata globalizzazione. Rivendicare le tradizioni di un gruppo etnico, di un popolo, è argomento caro ai comunitaristi libertari. Essi sostengono di fatto il diritto di tutte le razze, etnie e gruppi culturali di organizzarsi e vivere separatamente qualora lo desiderino.

Ogni 'minoranza' ha il diritto di autodeterminarsi, ignorando l’ordine costituzionale interno allo Stato in cui si trova a coesistere con altre comunità maggioritarie, al fine di affermare la propria autonomia; il superamento dello Stato-nazione è per i comunitaristi libertari la necessaria soluzione federalista, che includerebbe la garanzia di sopravvivenza delle differenti comunità. Di pari passo ogni etnia ha il diritto di esistere e mantenere il suo popolo/nazione senza l'intervento di forze esterne (il Buthan è un esempio riuscito di cultura integrale rimasta tale). Conservando il patrimonio locale è possibile contrastare l'omologazione e lo sradicamento culturale della globalizzazione.

Sostenere la possibilità del separatismo volontario significa superare la soluzione assai remota di una necessaria riorganizzazione degli stati su base etnica (evitando, ovviamente, una eccessiva e del tutto irrealistica frammentazione, quindi, senza pretendere che ad ogni etnia corrisponda uno stato, cosa impossibile) in virtù della diffusione di forme di “federalismo etnico”, sempre in presenza di presupposti che la rendano praticabile. E' dunque ovvio che il compito strategico del comunitarismo libertario, nel breve e nel medio periodo, si orienti verso un futuro centrato sul federalismo e consideri solo come attualmente inessenziale e teorico l'obiettivo dell'indipendenza statale, obiettivo che un futuro potrebbe darci ragione.

Il comunitarismo libertario tende a concepire la particolarità etnica e linguistica come un elemento di coesione e di identità del territorio, un valore su cui mantenere salde le radici della Tradizione. E' evidente l'elemento caratterizzante questa visione identitaria, come di quelle minoritarie (pensiamo ad esempio all'indipendenza occitana o a quella bretone per fare un paio di esempi noti). Il rispetto per le differenze è infatti alla base del movimento: il motto del futuro sarà rispetto per gli altri e unità nella diversità. Il comunitarismo libertario è il modo più lineare per unire tutte le anime di un'anarchia senza compromessi senza rinunciare ai propri principi identitari, di qualsiasi forma di identità si tratti.