Prendendo spunto da un articolo in rete (leggilo qui https://www.nihilist.li/2018/01/07/historical-tradition-anarchism-nationalism/)  sulla militanza di diversi anarchici nelle organizzazioni Organisation of Ukrainian Nationalists e Ukrainian Insurgent Army (OUN, UPA) e sui legami di anarchici e nazionalisti, abbiamo deciso di scrivere un articolo scottante quanto interessante. 

Il nazionalismo e l'anarchismo possono essere compatibili? Sono davvero agli antipodi? Queste sono domande scottanti, sulle quali abbiamo meditato a lungo. Molti anarchici direbbero di no, come molti nazionalisti direbbero di no.

La risposta reale è: dipende.

Etimologia e Semantica

Se guardiamo all'etimologia della parola anarchia, "La parola anarchia deriva dalla parola latina medievale anarchia e poi dalla parola greca anarchos (" non avere padroni "), con an- + archos (" padroni ") che significa letteralmente "senza sovrano " possiamo vedere che è contraria alla credenza conservatrice tradizionale che l'anarchia significhi caos e rivolta nelle strade, la vera anarchia implica semplicemente una società basata su associazioni volontarie. Molti anarchici implicheranno anche che l'anarchismo significa una società priva di qualsiasi forma di gerarchia. Anche questo sarebbe semplicemente falso e praticamente impossibile poiché la gerarchia esiste nel mondo naturale ed è evidente attraverso strutture come la famiglia e la tribù. Queste forme di gerarchia naturale non devono tuttavia rappresentare l'oppressione, la coercizione e la tirannia. Una struttura di gruppo coesa può prendere decisioni di comunità volontarie insieme ad alcune che assumono il ruolo di leader naturali. La gerarchia sociale orizzontale totale ridurrebbe inevitabilmente il tutto al minimo comune denominatore.

Ora cos'è il nazionalismo? Molti anarchici assocerebbero immediatamente la parola a sventolare bandiera, patriottismo cieco, stato di polizia, colonialismo e imperialismo. Anche questo è semplicemente falso. Lo stato nazionale moderno e le sue imprese sono un fenomeno relativamente nuovo. Nel mondo medievale e antico, la nazione e lo stato non erano sempre indissolubilmente legati. Una nazione potrebbe essere definita come un corpo di persone uniti da una comune discendenza, storia, cultura o lingua, che abitano un determinato paese o territorio. Le tribù di nativi americani si identificavano spesso come nazioni. Le tribù germaniche dell'età del bronzo e del ferro vivevano in modo molto decentralizzato, con molte tribù sparse sulla Germania che controllavano i propri affari con caratteristiche uniche per ogni tribù. Il nazionalismo nella sua essenza è semplicemente un gruppo coeso di persone che preservano la loro cultura, identità, religione o punti di vista ideologici. Questo è spesso legato a una specifica terra o territorio in cui queste persone hanno vissuto e sviluppato per migliaia di anni, ma secondo me potrebbe anche indicare un gruppo di persone con un legame comune: orientamento sessuale, filosofia. In breve, il diritto dei popoli all'autodeterminazione e all'autonomia.

Con queste definizioni, non c'è assolutamente motivo per cui gruppi specifici di persone non possano vivere in modo anarchico, sovrano, controllando i propri affari, mantenendo le cose sulla loro cultura che li rendono ciò che sono, attraverso istituzioni volontarie e mutuo aiuto non legato a grandi governi, organizzazioni internazionali o capitalismo.

Il concetto di fusione dell'anarchismo con il nazionalismo non è affatto nuovo. Proudhon stesso ha parlato del suo amore per la cultura francese e Bakunin ha parlato della patria, un "modo di vivere e sentire" che è "sempre un risultato incontestabile di un lungo sviluppo storico". L'amore per la patria tra la "gente comune ... è un amore naturale, reale" mentre il "patriottismo politico, o amore per lo Stato, non è [la sua] espressione fedele" ma uno "distorto per mezzo di falsa astrazione, sempre per il beneficio di una minoranza di sfruttamento ”. Kropotkin parlava molto delle città libere medievali basate su corporazioni che erano in gran parte autonome in cui i re potevano esercitare un dominio minimo. Ernst Jünger con il suo concetto di Anarca e altri rivoluzionari conservatori ha respinto la loro forma moderna di stato nazionale e capitalismo soprattutto dopo aver visto gli orrori della prima guerra mondiale. Il Circolo di Proudhon era un gruppo sindacale nazionale che cercava di sintetizzare alcune idee di Proudhon con il nazionalismo. Else Christensen, la matriarca dell'odinismo moderno, era un anarco sindacalista e nazionalista culturale durante la seconda guerra mondiale in Europa. Orwell e Tolkien erano entrambi considerati "Tory Anarchists". Il movimento anarchico dell'indipendenza, il concetto di panarchia. Anche nel concetto di comunitarismo Libertario di LC si promuove la libertà senza giudizio, la diversità senza globalizzazione, l'accettazione senza universalismo, la comunità senza coercizione, la cultura senza suprematismo, la sovranità senza statismo, l'organizzazione senza politica e i mercati liberi senza capitalismo.

Non vediamo alcun motivo per cui i principi anarchici non possano essere applicati a nessuna comunità, tribù o nazione indipendentemente dalla cultura e dal fatto che quella comunità o nazione decida di essere omogenea e coesa, le persone hanno il potere di lavorare insieme.

Il nazionalismo e l'anarchismo hanno forti legami, che non vanno solo a braccetto al livello concettuale. La storia ci ha insegnato che i punti di contatto ci sono stati ed hanno creato sincretismi unici nel loro genere.

Le origini del flirt eretico

Nel 1932, anno X dell’era fascista, un noto e fiero anarchico fiorentino, Ricci Alberto detto Berto, scrittore, poeta, pubblicista di varia letteratura, presentò alla federazione locale domanda di iscrizione al Pnf. Secondo prassi, gli fu chiesto: «perché non si è iscritto prima?». Al che, l’istante replicò con un onesto: «Perché ero di idee contrarie». Come burocrazia vuole, l’istanza arrivò sul tavolo del federale locale, Alessandro Pavolini, che oppose un deciso “No” alla richiesta. Motivo del rifiuto, testuale: «Ha dimostrato in passato idee anarchiche». Per il responso finale, però, la pratica passò agli uffici romani del segretario nazionale del partito, all’epoca: Arturo Marpicati che, letti gli atti, approvò l’iscrizione apponendo in calce il motivo del rigetto ostativo: «E noi fascisti non si era forse anarchici?».

Reputandolo utile a tracciare il profilo, per quanto parziale, d’un prototipo anarco-nazionalista, converrà seguire, ancora per un attimo, il percorso biointellettuale di Berto Ricci.

Partiamo dalla fine. Ricci morì, mitragliato da uno Spitfire, il 2 febbraio 1941 nella guerra d’Africa, dove era voluto andare volontario, vincendo le solite resistenze burocratiche. «Di idee contrarie», lo fu prima, durante e dopo la sua iscrizione al partito fascista. Contrario a tutto per vocazione eretica, etorodossa e per spirito di contraddizione, fu fedele solo alla sua esclusivissima idea che gli germinò, intorno al 1927, per semina stirneriana, soreliana e nicciana. Gli ci vollero cinque anni per convincersi del suo destino e altri due per ottenere la tessera. Ma quel che era nel suo Dna, alla fine emerse. Il gioco che più lo appassionava era lasciar zampillare scintille dall’accostamento violento delle idee in libera contraddizione. Anarchico e antinazionalista ma per l’impero: «che realizzerà la Monarchia di Dante e il Concilio di Mazzini»; anticapitalista ma per l’evoluzione del proletariato in proprietari; per una tradizione civile ma «arricchita di millenaria cristianità, sostanzialmente e robustamente pagana»; realista, in antitesi all’idealismo di Gentile, ma utopista; anticomunista ma «l’antiroma non è a Mosca è a Chicago: la capitale del maiale» perché «la rivoluzione comunista ha fatto bene a se stessa»; fascista di sinistra ma non ostile a quello di destra, perché «il nemico numero uno, fu e resta il centro, cioè la mediocrità accomodante. Il centro è compromesso, noi siamo l’affermazione simultanea degli estremi, nella loro totalità».

Poca roba, si dirà: la vicenda di uno scrittore un po’ stravagante non può invalidare una consolidato pregiudizio antitetico dei due poli in questione. Tanto più se si considera dove vanno a parare in via definitiva i due percorsi: in “nessuno stato”, l’anarchia, e addirittura nello “stato etico”, il fascismo. Iato che però si accorcia se consideriamo le cose da un punto di vista ontologico: entrambe le scuole predicano l’assunzione diretta delle responsabilità dell’azione individuale e il primato dell’azione sulla teoria. E proprio qui scatta il corto circuito che brucia le distanze e produce quel flirt che consentirà a Ricci e ad altri anarchici di indossare la camicia nera e farsi agenti della rivoluzione fascista. Citerò solo alcuni dei casi più illustri. Accadde all’artista e poeta Lorenzo Viani, anarchico della compagnia di Errico Malatesta, che partì progettando una Repubblica sociale dell’Apuania e continuò la sua milizia politica da squadrista. Accadde a Leandro Arpinati che, prima di cadere in disgrazia presso Mussolini, fu importante gerarca del regime. Si definiva anarchico Giovanni Papini, e conosciamo il suo percorso ulteriore. Lo era pure Marcello Gallian che, ancora col fiocco nero dell’anarchia al collo, fu tra i fascisti della prima ora in Piazza San Sepolcro a Milano, legionario dell’impresa fiumana e, tre anni dopo, marciatore su Roma, rimanendo sempre, però, quel dannato sovversivo che era.

Erano tutti ciechi, tanto da non vedere le differenze e talmente stupidi da non accorgersi della contraddizione? Proprio Marcello Gallian, a chi gli chiedeva i motivi della sua “conversione” rispose: «Non sono adatto a conversioni. Io ho creato un Cristo per me, ho creato un Mussolini per me, ho creato un mondo rivoluzionario tutto per me, secondo i miei punti di vista necessari e sinistri». Non vi sembra sentire riecheggiare nelle parole di quest’altro anarchico a tutto tondo quelle del riconosciuto padre dell’anarchia tout court? Quel Max Stirner che ne Der Einzige und sein Eigentum (L’unico e la sua proprietà), pubblicato a Lipsia nel 1844, affermava: «Il mio potere è la mia proprietà, il mio potere mi dà la proprietà. Io stesso sono il mio potere… e per esso sono la mia proprietà».

Stirner appartiene a quella schiatta di filosofi che sono passati alla storia del pensiero per aver scritto un solo libro. Un libro, però, con il quale furono chiamati a fare i conti, per un verso o per l’altro, riconoscendone o meno il debito di origine, le teste più pensanti comprese fra la seconda metà dell’800 e il ‘900 tutto: da Søren Kierkegaard a Friedrich Nietzsche fino ai Situazionisti. Stirner disegnò un uomo che rinuncia a quelle stampelle che sono gli “ismi”. Se proprio su un “ismo” l’uomo doveva fondare il senso della sua esistenza è se stesso: un “io” che pretende essere, appunto, l’Unico. Il che, per esempio, impegnò a fondo Marx-Engels (cfr. L’ideologia tedesca) nella confutazione di un messaggio che negava alla radice il loro. Un’impresa improba e per molti versi abortita nell’impropero: «Stirner è un miserabile» che, però, non sortì l’effetto di eliminare il fascino del suo (di Stirner) richiamo in generazioni di anarco-comunisti, anarco-socialisti, anarchici-libertari e perfino di chi anarchico non fu mai. Come quel tal Mussolini Benito che, forse per il debito formativo contratto in gioventù, non impedì, da duce, la pubblicazione e la circolazione in Italia dell’opus stirneriano. E non fu il solo. Perfino autori di cui è impossibile disconoscere l’altezza intellettuale, e talora mal-destramente considerati agli antipodi, pagarono dazio. Come Carl Schmitt che non smise mai, per tutta la vita, il proprio personale corpo-a-corpo con il pensiero di «Max, l’Unico che mi fa visita nella mia cella» (la cella era quella della prigione nella quale era ancora rinchiuso, nel 1947, “per l’aiuto alla preparazione di una guerra d’aggressione”). Come Ernst Jünger che, in Der Waldgang (Il ribelle) e Eumeswil (Heliopolis), traccia il profilo dell’anarca, del quale è evidente l’ascendenza dell’Unico. O come Julius Evola del periodo filosofico di Teoria e Fenomenologia dell’individuo assoluto, dove traccia l’identikit dell’autarca: l’uomo sufficiente a se stesso. Non trovate sorprendente che pensatori di destra accolgano Stirner e il superpensatore della sinistra, Karl Marx, lo aborra?

Anarchico era Papini, quando si firmava Gianfalco e nei primi anni del Novecento progettava una filosofia della trasgressione violenta: «Noi dobbiamo ricercare, esaltare e realizzare la vita piena, completa, ricca, esuberante, traboccante, tropicale, ascendente e dobbiamo perciò perseguitare, esiliare, sopprimere tutto quello che tende a impoverire, ad abbassare, a limitare, a imprigionare la vita». Lo scrisse nel 1905, con circa un trentennio di vantaggio sull’Arbeiter di Jünger, gettando le prime basi di quella saldatura tra individualismo “faustiano” e comunitarismo gerarchico. Il Papini giovane si definì anarchico a chiare lettere, ma di un anarchismo anti-nichilista, neopagano feroce, futurista, superomista, nietzscheano. E anarchico era Lorenzo Viani, il pittore viareggino che scriveva anche racconti sulla povera gente rivierasca, marinai taciturni, a contatto con la morte. Progettò Viani una “repubblica sociale” alla maniera anarchica insieme con Riccardo Roccatagliata Ceccardi, bizzarrissima figura di sregolato genialoide: doveva essere la “Repubblica Apuana”.

Viani, amico del vecchio libertario Errico Malatesta, fu poi squadrista e negli anni trenta collaborò al Popolo d’Italia, ma da povero, da schivo e riservato. Come Marcello Gallian, altro anarchico alternativo, anti-borghese viscerale, uno che non smise di crederci per tutta la vita, che come tanti della “sinistra” vide nel fascismo della prima ora la risposta rivoluzionaria, innovatrice, sbrigliata, ai conformismi di “destra” e di “sinistra”. Gallian rimase fedele al suo ideale anche di fronte a tante sfasature del regime. E, come pochi altri, ingenui e nobili, finì povero, anzi poverissimo.

E anarchico era Berto Ricci, grande ammiratore di Stirner, instancabile stimolatore di idee, vero uomo libero che mise la sua intelligenza al servizio di una volontà di rinnovamento direi antropologico del tipo d’uomo all’italiana. E lo stesso Mussolini, negli anni precedenti la prima guerra mondiale, fece i conti con Stirner, la cui figura dell’Unico dominatore voleva fondere con il solidarismo comunitario. Al contrario di Evola che, da posizioni individualiste, tratteggiò un algido Autarca fatto di echi stirneriani, ma lontano da ogni risvolto popolare.

Tutto questo fu “anarchismo nazionale", perché, a differenza dell’altro, non era egualitario, ma anzi convintamene differenzialista. Credeva nella forza del genio, nella potenza dell’individuo d’eccezione, il fuorilegge ribaltatore degli strati sociali, il titano che con la sua volontà rovescia i mondi filosofici ma, all’occorrenza, sa fare e disfare la storia. Anarchismo con venature alla Plechanov, molto Nietzsche, poca utopia libertaria, più concretezza, più realismo, tanto sangue ribellistico, buone dosi di Stirner, ma dello Stirner profondo. Questo anarchismo, diciamo così, culturale, sul quale si arrovellarono in parecchi. Anarchismo di istinti, di carne. Poi ce ne fu uno più propriamente politico, ideologico, militante. Al capolinea dell’interventismo, nel 1914, intrecciarono i loro destini la rivolta sociale e il mito della liberazione nazionale. Ci furono avanguardie che incontrarono altre avanguardie. L’anarco-interventismo si trovò a fianco del sindacalismo rivoluzionario, e i Corridoni e i Mussolini a loro volta si unirono ai d’Annunzio, ai Locchi, ai Corradini, agli Slataper, i poeti della patria libera. Quando poi, nel dopoguerra, si videro bande nere ribelli, quando si sentì parlare di repubblica, di liberazione dalle vecchie ipoteche conservatrici e clericali, si lessero programmi, come quello sansepolcrista, che parlavano di consigli del lavoro, di espropriazione delle ricchezze, di partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa etc., la saldatura si fece da sola.

Gli anarchici anti-utopisti, politici realisti, come erano divenuti interventisti capendo la portata rinnovatrice della guerra, così si fusero col primo fascismo, intuendone la portata destabilizzatrice della decrepita Italia monarchico-liberal-giolittiana. Il filone anarchico che confluì nel fascismo, sposandone in pieno il progetto politico, non fu poca cosa. E fu anche evento naturale, che combaciò con posizioni ribellistiche come l’arditismo e lo squadrismo.Ci furono adesioni singole di base. Ma ci furono anche uomini che, provenendo direttamente dall’anarchismo, ne continuarono l’attitudine anti-sistema dai vertici del fascismo-movimento e anche da quelli del fascismo-regime. Da Aurelio Padovani, anarco-sindalista napoletano prima entrato nel PNF e poi uscito perchè troppo borghese e reazionario, poi costretto a rientrare. Leandro Arpinati, poi gerarca potente e infine emarginato, a Massimo Rocca, elemento influente nei primi anni venti, a Mario Gioda, primo segretario del Fascio torinese e grande avversario del monarchico De Vecchi, che immancabilmente finirà col surclassarlo. Fino a Edoardo Malusardi, punta di diamante del primo fascismo veronese, una realtà nata molto inclinata a “sinistra”. Malusardi, sindacalista-integralista, corridoniano, operaista, rimase nelle seconde file del fascismo, fedele ai suoi ideali di “lotta contro la proprietà e il capitale improduttivo e contro la burocrazia parassitaria”.

Bisogna dire che proprio in questo anarchismo militante si celava a volte una contraddizione singolare, che è poi quella stessa che rende le ideologie non di rado pieghevoli e sinuose, fino a produrre connubi impensabili. Nato individualista, l’anarchismo reca in sé un’anima “liberale”. Stirner, non a caso, si formò su Hobbes. Arpinati, amico di Torquato Nanni, chiuse la carriera da perfetto liberale. Rocca, al tempo della sua idea élitaria sui “gruppi di competenza”, aveva in mente un’idea di gerarchia tecnocratica che potrebbe essere benissimo definita liberale. L’anarco-libertaria Maria Rygier, divenuta fascista e poi andata in esilio, finì nel dopoguerra con l’iscriversi al PLI.

Il ruolo di Evola

Altro personaggio, importante per descrivere questo nesso era Evola. Evola non è propriamente un anarchico, ma possiamo dargli credito di moltissime teorie autarchiche ed invidualiste.

Il volume, L’arco e la clava, che conteneva l’articolo La gioventù, i beats e gli anarchici destra, apparve nel febbraio del 1968 per le edizioni di Vanni Scheiwiller in una tiratura di 1500 copie. Una seconda edizione uscì nel dicembre del 1971 in una quantità di 2000 copie. In poco più di tre anni il libro divenne quasi introvabile: un fatto insolito per un’opera di Evola. Probabilmente si può ipotizzare che il rapido esaurirsi di quel lavoro dipese, appunto, dalla presenza nel libro di questo saggio ritenuto fondamentale per quel momento storico. Nell’articolo Evola, analizzando il movimento di contestazione, riteneva «legittima la rivolta contro il sistema esistente», ma la considerava vuota di valori e priva di una superiore legittimazione. In un passo dell’articolo Evola infatti scriveva:

Sul problema della nuova generazione e dei “giovani” è stato scritto molto, anzi troppo […]. Non v’è dubbio che si viva in un’epoca di dissoluzione, così la condizione che tende sempre più a prevalere è quella di colui che è “sradicato”, di colui pel quale la “società” non ha più un significato, per cui non lo hanno nemmeno i vincoli che regolavano l’esistenza e che, del resto, per l’epoca che immediatamente ci ha preceduti, e che in varie aree ancora si continua, erano soltanto quelli del mondo e della morale borghesi. Naturalmente, di questa situazione la gioventù ha avuto a risentire e in particolar modo, e sotto questa prospettiva porsi alcuni problemi può essere legittimo […]. Una nuova generazione, dunque, subisce semplicemente lo stato di fatto; essa non si pone nessun vero problema del trovarsi, per così dire, slegata fa un uso da dirsi senz’altro stupido. Quando questa gioventù pretende di non essere capita, la sola risposta da darle è che in essa non vi è proprio nulla da capire […]. Il presunto anticonformismo di certi atteggiamenti, a prescindere dalla loro banalità, segue del resto, una specie di voga, di nuova convenzione, per cui è proprio il contrario di una manifestazione di libertà […]. Questo tipo di “gioventù” definita dalla sola età […] soprattutto in Italia è fortemente rappresentato.
In questo contesto, il filosofo, esacerbando le sue critiche verso i movimenti giovanili italiani ed esaminando anche i movimenti provenienti dall’estero, come la beat generation, sosteneva invece che lo spirito ribellistico che era alla base di quest’ultima era da considerarsi “legittimo”.

Per cogliere le forme più tipiche [di questa ribellione giovanile] – replicava Evola – forse occorre riferirsi, però, all’America, in parte anche all’Inghilterra. In America sono già venuti in evidenza su larga scala fenomeni di traumatizzazione spirituale e di rivolta di una nuova generazione. Alludiamo a quella a cui si è dato il nome di beat generation […]: i beats o beatnicks, in una loro variante chiamati anche hipsters […]. Le forme beat del fenomeno di rivolta hanno rivestito uno speciale carattere paradigmatico e, naturalmente, non sono da mettersi sullo stesso piano di quella gioventù stupida di cui abbiamo parlato poc’anzi avendo in vista soprattutto l’Italia. Dal nostro punto di vista, esaminare brevemente problemi in questo fenomeno ha una ragion d’essere perché condividiamo quel che da alcuni beats è stato affermato, ossia che all’opposto di quanto pensano psichiatri, psicanalisti e “assistenti sociali”, data una società e una civiltà come le attuali e, specialmente, come quella americana, nel ribelle, in colui che non si adatta, nell’asociale, è in via di principio da vedersi l’uomo sano. In un mondo anormale i valori si capovolgono: colui che appare anormale rispetto all’ambiente esistente è probabile che sia proprio lui “normale”.

Partendo da tale punto di vista, Evola tracciava le differenze fra il beat e il cosiddetto “anarchico di destra”.

Dal nostro punto di vista l’unica problematica riguarda la definizione di colui che potremmo chiamare l’“anarchico di destra”. Vedremo la distanza che separa questo tipo, dall’orientamento problematico proprio, quasi sempre, al non-conformismo dei beats e degli hipsters. Il punto di partenza, ossia la situazione che determina la rivolta del beat, è ovvio. Viene accusato un sistema che pur senza presentare forme politiche “totalitarie” soffoca la vita, colpisce la personalità […]. In tale clima viene sentita a vivo appunto la condizione di esseri senza radici, di esser una unità sperduta nella “folla solitaria” […]. I valori tradizionali sono andati perduti, i nuovi miti vengono smascherati e questa “smitizzazione” colpisce tutte le nuove speranze […]. Qui, tuttavia, si può già indicare il più importante tratto distintivo rispetto al tipo di un “anarchico di destra”: il beat non reagisce e non si ribella partendo dal positivo, ossia avendo una nozione precisa di quello che sarebbe un ordine normale e sensato, tenendosi ben fermo a certi valori fondamentali. Egli reagisce quasi d’istinto in un confuso modo esistenziale, contro la situazione dominante, quasi come accade in certe forme di reazione biologica. Invece, l’anarchico di destra sa quel che vuole, ha una base per dire “no”. Il beat non solo, nella sua caotica rivolta, tale base non l’ha, ma vi è anche ragione di sospettare che qualora gliela si indicasse egli probabilmente la respingerebbe. Così, per lui può valere la definizione di “ribelle senza bandiera” o “senza causa”.


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