Ogni grande pensatore, ogni grande avvenimento è destinato a subire «l’onta della storia», che non è solo il consueto travaglio delle dinamiche crociane, secondo cui ogni Storia è sempre e solo «contemporanea».

È molto di più. È il rischio di stravolgere e interpretare in una prospettiva lontana dalla ricostruzione dalla realtà dei fatti sic et nunc, ben oltre il ragionevole diritto a letture soggettive e non assolute.

Ciò non dipende solo dal fatto che nel processo di ricostruzione storica degli eventi e in particolare nel campo delle idee sia implicito un fattore intrinseco di inesattezza – legato ai comportamenti individuali, alle circostanze concomitanti e alla stessa imprecisione lessicale – tale da giustificare e alimentare interpretazioni tra loro difformi e contrastanti.

C’è di più. C’è il fatto che la violenza ideologica, alla quale spesso gli intellettuali e gli storici non riescono a sottrarsi, consente di sfruttare quelle che potremmo chiamare le debolezze documentali della storia per i propri fini, che a volte non sono più quelli di ricostruire un determinato evento storico, bensì di affermare il trionfo delle proprie idee, appunto «contemporanee».

Sicché il racconto storiografico così formato e visto nel suo susseguirsi, appare come una serie di risultati imprevedibili e contrapposti, anziché come una progressiva convergente accettazione di realtà comunemente verificate.

Questa considerazione sorge spontanea, in particolare, se ci accingiamo, come vorremo più avanti, ad affrontare il tema dei rapporti tra le teorie economiche e sociali di Pierre-Joseph Proudhon e l’Italia fascista degli anni ’20 e ’30.

Tema in cui, come spesso accade, convinzioni storiografiche anche consolidate e apparentemente indiscutibili, sono messe a dura prova.

Proudhon fascista?

L’accostamento di Proudhon al fascismo è un dato anche storiograficamente incontrovertibile, almeno fuori dall’Italia. La sottolineatura di questa liaison certamente dangereuse tra fascismo (e nazismo) e le teorie del sociologo francese fu approfondita da Salwyn Schapiro tra il 1945 e il 1949, ma aveva già avuto dei precedenti nei lavori di Stewart del 1929, per essere infine autorevolmente ripresa in un famosissimo saggio di Edward Carr del 1950. Certamente la prospettiva di questi studi, all’interno del consueto indirizzo di critica radicale del pensiero proudhoniano da posizioni marxiane, et abbastanza forte e per alcuni versi sorprendente. Tuttavia, nel tentativo di separare i destini di Proudhon da quelli della tradizione socialista, Carr e i suoi discepoli, più che contribuire a rafforzare l’ormai ripetuta scomunica del marxismo internazionale al socialismo proudhoniano, finiscono involontariamente per aprire un nuovo fronte, entrando indirettamente nel merito del dibattito sulla natura dei fascismi nazionali e ponendo il problema delle loro paternità dottrinali.

A prima vista, le analogie tra alcuni punti del «socialismo» proudhoniano e il fascismo mussoliniano non mancano, ma un conto sono i legami ideali documentati, un altro sono le generiche somiglianze «ad orecchio». In ogni caso, il nesso tra Proudhon e il fascismo si giustificherebbe sul fatto che egli

non fu un leader di un partito rivoluzionario [...] né il fondatore di una scuola [...] anche se discepoli animosi si rivolgevano a lui, attratti più dalla violenza dei suoi attacchi all’ordine sociale, che dalla chiarezza dei suoi pensieri. Ascoltavano il loro maestro ma non la sua visione, dal momento che egli stesso la vedeva appena e oscuramente. In verità Proudhon fu un rivoluzionario, ma non del suo tempo, del nostro e per questo motivo deve essere riconsiderato alla luce del presente.

La più evidente contiguità tra fascismo e Proudhon risiede nell’opposizione a quella «aristocrazia del denaro» che già aveva sollecitato l’interesse di de Tocquevill e che fu una delle caratteristiche salienti della Francia nel periodo della monarchia di luglio. Da questa profonda critica del ruolo della finanza, Proudhon ne dedurrebbe un modello di società alternativo al capitalismo, in cui la stessa celebre frase per la quale «la proprietà è un furto» in realtà non esprimerebbe la negazione di ogni legittimità del possesso individuale, ma semplicemente la condanna del conseguimento di essa attraverso modalità fondate sul privilegio. In questo modo, Proudhon sarebbe stato un sostenitore ante litteram dell’opposizione fascista alle «plutocrazie occidentali» e della condanna di ogni profitto (sia esso rendita o interesse sul capitale) non basato sul lavoro.

Secondo Schapiro:

«l’anticapitalismo di Proudhon non è assimilabile a quello dei socialisti che attaccavano il capitalismo principalmente come un sistema di produzione. Egli lanciò il suo attacco al capitalismo come sistema di scambio che funzionava attraverso il gold standard, la Banca di Francia, e la Borsa».

E per questo si fece sostenitore di una rivoluzione del credito.

Un altro punto fondamentale riguarda la sua concezione sociale e la sua idea di democrazia. Proudhon diffusamente esprime un radicale disprezzo verso le masse, incapaci di perseguire il progresso sociale, che può essere promosso solo dagli esprits d’élite. Egli in «più punti» afferma di essere contrario a quello – monarchia assoluta o repubblica democratica poco conta – che chiama il governo «politico», in favore del cosiddetto governo «economico», fondato sullo schema del mutualismo e che sul piano politico si concretizza nella dimensione del «federalismo». L’insieme del governo economico e della struttura federalista dà luogo ad una società – le troisième monde – che sostituisce il capitalismo, mantenendo di quest’ultimo l’impresa individuale, la libertà di associazione, la concorrenza e la proprietà privata, ma giungendo al contrario del capitalismo alla creazione di un’unica classe media, che non tollererebbe lo strapotere del capitale finanziario e industriale.

Sia sul piano storico, come su quello teorico, Proudhon sembra confidare per realizzare le sue personali idee rivoluzionarie sulla figura di un autocrate, che alla metà del secolo XIX in Francia avrebbe avuto il nome di Napoleone III, ma che evidentemente, nel parallelismo con il fascismo italiano assumerebbe la fisionomia del Duce.

Forcefully and repeatedly Proudhon drove home the idea that a social revolution could be accomplished only through the dictatorship of one man. Because of party divisions the revolution, so necessary to France, could not come from the deliberations of a popular assembly but from the dictatorship of one man supported by the people.

Né il fallimento denunciato da Proudhon dell’esperimento del Secondo Impero, secondo Schapiro, scosse la fiducia verso la figura di un dittatore, anzi diventa lo spunto per rafforzare i punti di contatto tra il pensatore francese e il fascismo, aggiungendo l’anti-giudaismo al rifiuto della democrazia.

Proudhon identified capitalists with bankers, and the latter with Jews, and he regarded all three as an unholy trinity indissolubly united in exploiting la classe moyenne and defending reaction in France [...] [He] had the tendency, inevitably in the anti-Semite, to see in the Jews the prime source of the nation’s misfortunes, and to associate them with persons and groups that he hated.

Dopo aver bollato Proudhon anche di razzismo nei confronti dei neri-americani, Schapiro, ripreso poi da Carr, passa all’accusa forse più forte e oltretutto più indimostrabile nello spericolato accostamento di Proudhon al fascismo, con riferimento a La Guerre et la paix del 1861. Dalla lettura di questo volume il filosofo di Besançon viene dipinto come un guerrafondaio, un «glorificatore della guerra, come ideale e come istituzione», misogino e contrario all’emancipazione femminile. Insomma il peggio del peggio.

Certamente Schapiro – oltre a non aver chiaro il fatto che a fronte di una produzione letteraria così ampia e spesso di occasione era forse consigliabile vagliare criticamente e nel loro insieme le posizioni preminenti – non comprese che, evidentemente, solo una parte delle teorie proudhoniane sarebbero state recepite dal fascismo, per cui si porrebbe il problema di come conciliare il resto e spesso il contrario, pur presente negli scritti del francese. Così come dimostrò di essere propenso a forzare la lettera e la sostanza dei testi dell’autore de La Guerre et la paix senza, apparentemente, tener conto di differenti interpretazioni che erano già disponibili nella storiografia. Infine c’è il problema della sua idea del fascismo, che più che su studi consolidati (allora ancora non esistenti) o su una familiarità di prima mano dei testi italiani dell’epoca, a guardare l’apparato dei riferimenti, sembra basarsi su una apodittica vulgata, comprensibile, ma scientificamente debole. Ed è appunto ad alcune di queste fonti che ora vogliamo rivolgere la nostra attenzione.

Proudhon: la versione «ufficiale»

Al di là della propaganda di piazza, non v’è dubbio che nel mare magnum delle idee proudhoniane – che spaziarono su gran parte dei temi più rilevanti dell’economia e della politica – ve ne fossero alcune compatibili con l’impostazione ideologica di fondo, che fece del fascismo in realtà più un movimento storico che una teoria organica. Ovviamente, questo non esclude che qualsiasi osservatore minimamente imparziale, passando dall’universale al particolare, potrebbe senza troppa fatica cogliere le radicali e insuperabili divergenze tra i fondamenti ideologici del fascismo e il pensiero di Proudhon. Differenze che risiedono non tanto e non solo in molteplici aspetti particolari, ma soprattutto nell’impostazione di fondo, che in Proudhon è di critica radicale verso ogni sistema politico esistente, mentre nel caso del fascismo mira prioritariamente alla costruzione di un soggetto politico forte e chiaramente connotato. A conferma di ciò, ad esempio, non sarà inutile ricordare come – scorrendo la voce «Fascismo» nell’edizione originale dell’Enciclopedia Italiana compilata, come è noto, per la prima parte dallo stesso Mussolini – il nome di Proudhon non sia affatto menzionato, né direttamente né indirettamente, tra le fonti della dottrina del fascismo. Perlomeno quindi, se Proudhon fu padre del fascismo, oltre ad essere egli inconsapevole della paternità, questa non gli fu riconosciuta dalla «prole». Ne risulta che il tema più interessante e forse più significativo, non sarà certamente il parallelismo tra il pensiero di Proudhon e il fascismo, ma quello di verificare se il complesso e a tratti rapsodico patrimonio «rivoluzionario» del francese sia stato recepito dalla cultura italiana degli anni ’30, se esso abbia influenzato qualche aspetto dell’ideologia fascista o se addirittura le idee del francese siano state sottoposte a un riadattamento funzionale alle finalità dello stesso fascismo.

Se restano oggetto di discussione alcuni aspetti relativi al processo che portò tra il 1929 e il 1936 alla pubblicazione dei primi trentacinque volumi dell’Enciclopedia Italiana coordinata da Giovanni Gentile, nessuno dubita che non una tra le voci compilate abbia minimamente potuto uscire dai binari di quel disegno culturale, in realtà ampio, che tale opera editoriale volle tradurre in pratica. E certamente si può convenire che tale disegno fu espressione, probabilmente nella sua forma più alta, ad un tempo del consenso degli intellettuali italiani nei confronti del fascismo, e di un’organizzazione della cultura emanazione del regime. Assume quindi un significato non esclusivamente culturale, ma estesamente «politico» e per così dire ufficiale della posizione della cultura italiana organizzata, la voce «Proudhon» nel volume XXVIII della collezione Treccani, compilata dal filosofo del diritto e della politica Guido Calogero (1904-1986). Il cui nome – per i suoi precedenti crociani, per la sua crescente ma mai occultata dissidenza verso il fascismo e non da ultimo per la sua condanna quale oppositore del regime da posizioni azioniste e pacifiste – di per sé è già un punto di domanda, un campanello di avvertimento nei confronti di alcuni luoghi comuni a proposito della libertà culturale imposta dal regime. La voce «Proudhon» nell’Enciclopedia Italiana, scritta dal giovane Calogero, è in ultima analisi la contraddizione palese a tutte quelle impostazioni che tenderebbero a ridurre il panorama culturale italiano durante gli anni ’30 a una specie di hegeliana notte in cui tutte le vacche erano nere.

Va da sé che, nel breve profilo di Proudhon, non troveremo nulla delle attinenze con il fascismo che gli si vorrebbero attribuire. Il sintetico, ma non superficiale ritratto del francese, viste le finalità dell’opera, dopo essersi doverosamente soffermato sugli aspetti biografici, svolge in sostanza due punti, quello del suo pensiero economico e quello dei suoi rapporti con il marxismo.

Calogero non nega l’influenza hegeliana, in particolar modo di sinistra, ma riconduce il pensiero di Proudhon principalmente al Rousseau in campo sociale e allo Smith in campo economico. Di particolare rilievo è la sottolineatura della centralità del lavoro che appunto il francese avrebbe desunto dallo scozzese:

«Nel campo economico ogni ingiustizia deriva infatti per il P. dal fatto che la distribuzione del valore non corrisponde esattamente a quella del lavoro: egli tende perciò a restaurare lo scambio diretto del lavoro con i beni e ad abolire la moneta e tutto ciò che da essa deriva in quanto diventa capitale».

Per quanto riguarda l’amore-odio nei confronti di Marx esso si spiega secondo Calogero

«nell’affinità che lega P. al Marx nel punto di partenza, e la distanza che al punto d’arrivo separa invece il “mutualismo” [...] del primo dal comunismo, sfociante in un capitalismo di stato, che propugna il secondo».

Un breve cenno conclusivo riconduce l’attuale (di allora) influenza del pensiero proudhoniano in particolar modo in Francia a

«tutte le correnti non decisamente comunistiche del socialismo e le affini ideologie etiche, politiche e sociali (sindacalismo soreliano, federalismo, mutualismo, pacifismo ecc.)».

Altrettanto brevemente è necessario esprimere almeno due ulteriori considerazioni, in margine appunto a quella che tramite il pensiero di Guido Calogero dobbiamo ritenere – come già detto – la posizione ufficiale o prevalente nella cultura italiana di quegli anni su Proudhon. Una prima di ordine esterno, che riguarda la scelta del professor Calogero come estensore della voce su Proudhon, allora giovane e promettente studioso, ma individuato probabilmente per la sua sensibilità verso la cultura francese e per la sua capacità di comprendere ed esprimere sinteticamente una posizione singolare nel panorama utopistico dell’800, apparentemente contigua a ideali contraddittori, la guerra come la pace, lo stato e l’anarchismo. Una seconda considerazione, nel merito, doverosamente ci porta a prendere atto, come il fascismo non avesse nessuna intenzione di attribuirsi tra i propri padri culturali Pierre-Joseph Proudhon, collocato esplicitamente nell’esclusiva tradizione di pensatori che ben poco o nulla ebbero a che fare con il fascismo.

In ogni caso, la voce «Proudhon» nell’Enciclopedia Italiana ci introduce a quello che probabilmente fu il lavoro più corposo su Proudhon durante il fascismo, legato all’opera di Giuseppe Santonastaso, saggio ampiamente citato in bibliografia e quindi, presumiamo, utilizzato dallo stesso Calogero.

Santonastaso, fu uno storico delle dottrine, allievo «sfortunato» e di inferiore caratura di Adolfo Omodeo, anch’egli di apparenti ascendenze crociane, con tenui connotazioni di fronda al regime, che non gli impedirono tuttavia di esordire con un volume nel 1932 sul ben più allineato Sorel.

Il suo lavoro poté tuttavia essere apprezzato almeno all’interno del mondo cattolico, in particolar modo da Francesco Vito, allora economista di punta dell’Ateneo di Padre Gemelli, che lo recensì favorevolmente palesandone involontariamente i limiti, come spesso accade, attraverso l’elenco dei pregi.

Anche nella rassegna apparsa sulla «Rivista Internazionale di Scienze Sociali» il lavoro del Santonastaso infatti viene menzionato più per la sua tradizionale e sistematica impostazione, che per la presenza di interpretazioni particolarmente innovative o specialmente al passo con i tempi, se si esclude l’abituale richiamo alla discussione sul capitalismo. Sicché alla fine potrà forse più interessare i cultori della storia del pensiero economico il fatto che Vito utilizzi almeno metà dello spazio della sua recensione al Santonastaso, per almanaccare contiguità tra Proudhon e l’economista inglese Clifford Douglas, apostolo del credito sociale.

Il volume di Santonastaso dedicato a Proudhon potrebbe deludere chi fosse alla ricerca di nuove chiavi di lettura o di brillanti conclusioni. Così come resterebbero insoddisfatti quanti volessero trovare gli echi di un ambiente culturale organizzato al fine di controllare e indirizzare qualsiasi forma di pensiero. Nulla di tutto questo caratterizza la ricostruzione delle idee di Proudhon che emerge dalle 181 pagine del libro. Il Proudhon di Santonastaso è un documentato compendio dei maggiori temi affrontati dal francese, il prodotto di una normale routine accademica, senza infamia né lode, in grado tutt’al più di attestare lo scarso interesse della cultura italiana negli anni ’30 per Proudhon. In due punti tuttavia il lavoro merita un certo interesse: nella discussione dei rapporti con Marx e in alcune considerazioni sul Risorgimento italiano, che tutti conoscono come uno dei punti cruciali della battaglia culturale del fascismo.

Nel raffronto tra Marx e Proudhon, sia con riferimento alla concezione della scienza economica, sia nei riguardi della metodologia, Santonastaso sembra considerare più efficaci le ipotesi del pensatore di Treviri. In particolare Santonastaso considera inappropriata l’idea di Proudhon che le forme di produzione si evolvessero secondo un processo dialettico:

La superiorità del Marx sul Proudhon consiste nel fatto che Marx riteneva che le diverse forme di produzione non si possono considerare come momenti dialettici, come contraddizioni ideologiche, come categorie astratte in contrasto una con l’altra; per Marx, l’evoluzione delle forme di produzione è analoga a quella delle specie animali, dove si passa per gradi dall’una all’altra e non per salto dialettico.

Proudhon sembra legato all’ideale del piccolo borghese, a una figura operaia non moderna, sostanzialmente prossima alla vecchia idea dell’artigiano medievale.

E tutto ciò si presenta come una evidente debolezza nel pensiero proudhoniano.

Santonastaso non lo dice esplicitamente, ma sembra adombrare la personale convinzione a ritenere più efficace sia la metodologia che l’analisi marxiana.

Dove al contrario la critica nei confronti di Proudhon si fa più esplicita è nel capitolo dedicato ai rapporti con il Risorgimento italiano. Il tema è di particolare significato, perché qui realmente, alla prova dei fatti, nel momento del confronto con idee che sono cruciali per i principi che il fascismo sosteneva, la scelta di campo si fa chiara e le distanze tra Proudhon e l’ambiente culturale Italiano appaiono evidenti. Almeno due sono i punti su cui Santonastaso si sofferma, il contrasto con Mazzini e il giudizio di Proudhon su Garibaldi.

Nello sfondo si delinea una generale condanna da parte di Proudhon del Risorgimento italiano in quanto movimento nazionale, contrario ai principi del federalismo europeo e agli interessi del proletariato. Il tutto prende le mosse da una conferenza tenuta nel 1851 da Mazzini a Londra, in cui Proudhon veniva definito il «Mefistofele della democrazia», e nella quale appariva la sostanziale opposizione tra le due visioni, quella mazziniana, fondata su una concezione «spritualistica» della vita, e quella del Proudhon, in ogni caso legata a forme di emancipazione materiale dell’individuo. Il contrasto è ulteriormente documentato da Santonastaso facendo ricorso alla corrispondenza del sociologo francese in particolare con il parlamentare italiano Giuseppe Ferrari, uno dei pochi alfieri del federalismo nel nostro paese.

Nel voluminoso epistolario del Proudhon vari sono i suoi accenni aspri e ingiusti verso di noi. Nelle pagine de La Fédération et l’unité italienne è sempre viva la sua jndignazione per la Francia legata al carro dell’Italia una e indivisibile. Gli uomini del nostro Risorgimento sono per lui tutti piccoli, seminatori di discordie, privi di ideali.

Nei confronti di Garibaldi il giudizio di Proudhon non è meno negativo.

Dall’epistolario del francese l’eroe dei due mondi è visto come un avventuriero, per di più non italiano, ma di «razza ligure». Con un certo scherno Santonastaso si sofferma sui tentativi che Proudhon dispiega nella sua corrispondenza di dimostrare – come altri fecero con Napoleone – la non appartenenza alla popolazione italiana, che sembra essere concepita dal francese come inesistente, come un crogiolo indistinguibile di razze non autoctone.

E trattandosi di argomenti di questo genere la solenne rampogna contro le affermazioni «anti-italiane» di Proudhon non poteva mancare:

Nell’esame delle situazioni e degli uomini del Risorgimento il Proudhon manca di generosità, di umanità, di chiaroveggenza politica; è un gretto municipalista. La magnanimità di Garibaldi, che si spingerà fino ad accorrere in difesa della Francia del ’70 gli viene offuscata dalle passioni dei suoi interessi di francese: Proudhon sente il fascino della personalità di Mazzini, ma trova in lui un grande rivale nel problema della questione sociale e si mostra violento contro di esso [...] egli immiserisce gli impulsi più nobili dei nostri uomini in un complesso d’azioni senza significato storico. Partigiano si rivela in ogni suo giudizio, il pensatore rivoluzionario tradisce in ogni rigo la preoccupazione del francese, che converte l’idealismo rivoluzionario in fermento di vita francese europea, ultima traccia del sogno napoleonico.

Proudhon tra le minoranze: l’ortodossia economica e i cattolici

Di ben altra natura, al contrario, è l’interesse dimostrato, almeno con due lavori apparsi nel corso degli anni ’30, da Renzo Fubini (n. 1904), allievo di Luigi Einaudi, professore di Scienza delle Finanze nell’Università di Trieste, con crescenti attenzioni alla storia del pensiero economico, prima di finire tragicamente la sua breve esistenza nel campo di sterminio di Auschwitz nel 1944. Fubini, nel saggio del ’37, dopo aver sottolineato le maggiori contiguità di Proudhon nei confronti dei seguaci di Smith anziché verso quelli di Marx, si sofferma su alcuni – sorprendenti per certi versi – punti di cocontatto tra Ferrara e il sociologo francese con riferimento a temi dell’imposizione fiscale. In realtà l’articolo è prevalentemente un’occasione per riprendere alcuni temi cari all’economista italiano, ma vuole sottolineare la comune base antiricardiana della finanza «contrattualistica» sostenuta parimenti da Proudhon, come dall’economista siciliano. Oltre alla comune condanna dell’imposta progressiva, seguendo Fubini, possiamo affermare una «vera e propria identità» di alcune loro dottrine:

le idee ispiratrici degli studi di Proudhon in tema di credito non vertono prevalentemente, come può apparire a tutta prima, sulla tendenziale eliminazione del deprecato monetario dell’oro e dell’argento – al quale proposito è degna di nota l’analogia con la concezione polimetallista di Ferrara – e neppure sull’idea della gratuità o semi-gratuità del credito. Per Proudhon come per Ferrara si tratta anzitutto e sopratutto di mobilizzare in conformità all’«ordine naturale» valori futuri al fine di rendere prontamente operanti le forze latenti spontanee del sistema economico: potenziamento del lavoro nella sua progressiva emancipazione dal capitale; superamento della crisi.

Lodevole e in parte innovativo lo sforzo di legare parte della produzione di Proudhon a temi propri della finanza pubblica e confrontarla con le soluzioni di uno dei più stimati e rari economisti liberali italiani, trasportando l’opera di Proudhon all’interno di una metodologia «ortodossa» e finendo per conferire alle teorie del francese quella dignità scientifica che spesso gli viene negata. Ma ancor più, l’interesse verso Proudhon da parte di Fubini – cioè da parte di un liberale perseguitato dal fascismo e dai suoi alleati – per di più sulle pagine del «Giornale degli Economisti e Rivista di Statistica» – una pubblicazione vicina alle convinzioni di un Gustavo Del Vecchio, che nel contempo poteva contare sull’appoggio di Alberto Beneduce – dimostra una peculiare e affatto scontata sensibilità verso il pensiero di Proudhon almeno da parte di alcuni ambienti culturali italiani durante il fascismo.

Il quadro della recezione di Proudhon all’interno della cultura italiana negli anni del ventennio fascista non sarebbe completo senza menzionare la figura di Francesco Spinedi (o Franco secondo la dizione con cui si sottoscrive nelle collaborazioni pubblicate nell’Enciclopedia Italiana). Economista di ascendenze cattoliche, tra i molti a non essere ripreso dalla storiografia del dopoguerra, non completamente esente da inclinazioni eterodosse, a tratti bizzarre, come spesso capitò tra gli economisti di quei tempi. Lo Spinedi operò a lungo presso l’Università di Roma sotto l’ala di Alberto De’ Stefani, pubblicando diversi contributi sulla «Rivista Italiana di Scienze Economiche». Già nel 1925 aveva dato alle stampe sulla rivista dell’Università Cattolica un lungo saggio di taglio storico-politico su Proudhon, in cui dimostrò una certa familiarità con le idee del sociologo francese, oltre che l’evidente maggiore inclinazione verso le tematiche economiche, nel corso del quale tuttavia non esce dai binari di una ricostruzione ricca e ammirata nei confronti del Protagonista, ma priva di particolari slanci di originalità.

Considerazioni finali

Il tema che ci siamo proposti di affrontare, data la sua limitatezza, non si presta certamente a un lungo elenco di conclusioni, ma consente tuttavia di porre alcuni punti che crediamo fermi. Anche su questioni circoscritte a volte i luoghi comuni hanno vita breve, se messi alla prova dei fatti. L’idea che ci fossero dei legami, di qualsiasi natura, materiale o ideale, tra le teorie ottocentesche di Pierre-Joseph Proudhon e il fascismo risulta priva di ogni oggettivo riscontro. Anzi questa indiscutibile assenza di ogni influenza, della minima traccia di sensibilità italiana verso le complesse, variegate e mai banali teorie del sociologo di Besançon dovrebbe farci riflettere almeno un po’ sul patrimonio culturale del fascismo, certamente in questo caso alieno da influssi internazionalisti e terzoposizionisti.

Proudhon tra le due guerre non godette in Italia di particolare favorevole letteratura. La cultura fascista, quella ufficiale, ma anche quella più defilata, restò sostanzialmente indifferente alle grandi e forti proposte del francese e si guardò bene dall’inglobarla nel Pantheon nazionale. Crediamo almeno per due fondamentali ragioni: la complessità e la contraddittorietà del suo pensiero, ma soprattutto per la sua profonda avversione al Risorgimento italiano, la cui glorificazione fu uno dei tratti salienti del periodo.

Significativamente mancarono cantori ufficiali di Proudhon, in un’epoca in cui i peana verso le bandiere, i padri e le idee di regime, anche quelle poi rivelatesi inconsistenti, non furono certo risparmiati anche per mano dei molti che nel dopoguerra scelsero la strada (tortuosa) dell’abiura. La voce del regime fu consegnata alla penna di uno dei pochi intellettuali italiani, Guido Calogero, al di sopra di ogni sospetto per quanto riguarda la sua propensione a cedere ai compromessi tra le sue idee e quelle del fascismo. Per il resto Proudhon fu trattato senza mancare di sottolinearne i limiti, senza nessuna particolare forma di idolatria – anche laddove forse sarebbe stato possibile, ad esempio nel caso delle sue anticipazioni del corporativismo fascista.

Ebbe qualche riscontro tra i cattolici (Vito e lo stesso Spinedi), e un ebreo perseguitato amico di «pericolosi» liberali. Per una rivalutazione del pensiero di Proudhon in Italia, anche a livello politico, bisognerà attendere altri più favorevoli momenti.


📖 Tesi pubblicata originariamente da Università degli Studi di Verona:
iris.univr.it/bitstream/11562/929892/1/noto%20proudhon.pdf


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