Fin dalla giovinezza il Vate è ossessionato, quanto perennemente impreparato, dal declino, a tal punto che all’età di sedici anni trovandosi un giorno con alcuni amici che parlavano di suicidio così si espresse: “Molti si uccidono per fuggire alla vita, nessuno si uccide per fuggire alla morte. Ciò significa che la morte è meno insopportabile della vita”.

La morte compare con accenni palesi nella maggior parte dei suoi scritti attraverso la scomparsa di qualche eroe o di una persona particolarmente cara; anche letterariamente egli ne è assolutamente ossessionato.

Come non ricordare “La Contemplazione della morte” scritta ad Arcachon nel 1916, alla notizia giunta contemporaneamente, della morte di Giovanni Pascoli e di Adolphe Bermond; a quest’ultimo è dedicata “XV aprile MCMXII”, una vera e propria meditazione sulla malattia e sulla morte, con il vecchio amico, sofferente per un cancro, che prega Dio di soffrire ancora un poco e di avere la grazia di poter sopportare la sofferenza. L’opera decisamente anticristiana nel senso della celebrazione dell’arte e della bellezza, nell’attimo stesso della celebrazione della morte dei due amici, diviene un libro religioso per la capacità, che vi si dimostra, di affrontare con trepidazione e un’ombra di timore la presenza e l’immagine della morte.

Ricordiamo anche la famosa dedica “A Mario da Pisa”, nella quale in forma aforistica viene evidenziata la religiosità dannunziana, non dominata da spiriti anticristiani, ma che si manifesta come disponibilità a contemplare e a conversare con Cristo, pur cercando un'altra divinità al di là di lui, quel Dio del futuro che è sempre nuovo e diverso e che rappresenta l’assoluta libertà interiore e la creatività continua della vita come dell’arte.

Tuttavia si segnalano anche altre prose come “Gesù e il resuscitato” e “Gesù deposto”, dove al motivo evangelico si unisce la celebrazione dei quadri dell’amico Domenico Trentacoste.

Ci sono poi le tre parabole del bellissimo nemico: “Il vangelo secondo l’avversario”, “La parabola del figliol prodigo” e “La parabola dell’uomo ricco e del povero Labaro” che hanno la struttura di veri e propri racconti, divisi fra tematica religiosa di ambito cristiano e sottile intento blasfemo.

Nel 1924 Gabriele D’Annunzio è solito visitare i conventi siti presso Gardone. Il Vate cronicamente malato e impreparato al declino viene spesso colto da improvvisi misticismi. In tali momenti critici trova aiuto e conforto nel suo amico Maroni, architetto e cultore di studi esoterici che diviene suo riferimento spirituale e fonte letteraria per il misticismo, ma soprattutto il supporto nella ripresa intellettuale e spirituale che lo porta all’elaborazione della sua ultima opera “Il libro segreto”.

Gabriele in questo suo percorso mistico, come volesse dare il buon esempio, scelse quale prima mèta di pellegrinaggio, l’antica abbazia benedettina di Maguzzano (BS) sede dei Frati trappisti algerini. Ricevuto con grande deferenza, donò loro il proprio ritratto e disse di volersi considerare un terziario francescano. A questo proposito Camillo Traversi, biografo del vate, nella sua opera “Vita di Gabriele d’Annunzio” ammette: “Più d’uno credette che il Poeta avesse intenzione d’entrar in un vero e proprio ordine religioso, e si parlò addirittura di conversione”.

Gli storici e i biografi ritengono che in D’Annunzio, negli ultimi tormentati giorni della sua esistenza, abbia prevalso, la lucidità del suo cervello o il cristiano respiro di sua madre, che egli chiamava “la mia madre santa”. Varie sono le testimonianze di questo particolare momento di spiritualità.

Tornando al tema della morte D’annunzio non si limita solo ad affermare di desiderare la morte, ma la “bella morte” e per “bella” non intende quella confortata dalla fede, ma una morte gloriosa in piena efficienza di corpo e di spirito.

Sembra che d’Annunzio fosse attratto dal culto di San Francesco d’Assisi; la verità è che egli non aderisce, almeno nel senso cristiano dell’espressione, ad una vera fede. Su questo non vi è alcun dubbio. Come non vi è alcun dubbio che il suo proclamato e decantato culto per il santo non abbia di religioso, che l’apparenza. Probabilmente il costante, inconcepibile parallelo che d’Annunzio si ostina a creare fra sè ed il santo, ha avuto nell’animo del poeta origini modeste.

San Francesco giovane soleva cantare in Francese ed in provenzale, amava i vestiti eleganti e sfarzosi e ne faceva confezionare colorati per attirare a sè l’attenzione, si appassionava a tornei, caccie, giostre e banchetti, amava vivande squisite e cibi rari; nella piana fra Assisi e Perugina combattè da eroe e alla presa alla rocca di Nardi diede la scalata alle mura.

Tuttavia D’Annunzio rimane rispettosissimo delle forme esteriori del culto e della Religione; in genere le relazioni personali con le gerarchie del Clero sono sempre state cordialissime, anche se alcuni sui libri furono messi all’indice.

A riguardo vi è da ricordare la missiva di D’Annunzio a Padre Pio del 28 Novembre 1924 indicando così il destinatario: “A Padre Pio in San Francesco”. Il Vate scrisse così al giovane frate, su cui si erano abbattuti i fulmini del Santo Uffizio: “Mio fratello, so da quante favole mondane o stupide o perfide, sia offuscato l’ardore verace del mio spirito. E perciò m’è testimonianza della tua purità e del tuo acume di Veggente l’aver tu consentito a visitarmi nel mio Eremo, l’aver tu consentito ad un colloquio fraterno con colui che non cessa di cercare coraggiosamente se medesimo. Caterina la Senese mi ha insegnato a “gustare” le anime. Già conosco il pregio della tua anima, Padre Pio. E son certo che Francesco ci sorriderà come quando dall’inconsueto innesto prevedeva il fiore ed il frutto inconsueti. Ave. Pax et bonum. Malum et pax”.

Dalla lettera emerge che il frate fosse andato a trovarlo al Vittoriale. Poichè Padre Pio non aveva lasciato in quei giorni San Giovanni Rotondo e la descrizione fatta da D'Annunzio era puntuale e minuziosa gli esperti attribuiscono all'episodio di bilocazione grandissima credibilità.


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