Le teorie eugenetiche sono state uno dei tratti più inquietanti delle politiche razziali della Germania nazionalsocialista. Per tale ragione, nel discorso pubblico esse vengono talvolta impropriamente associate in modo univoco alla cultura politica della destra estrema. In realtà, le origini dell’eugenetica emergono nell’alveo del progressismo americano d’inizio Novecento. (Giovanni Borgognone)

Basate sull’assunto dell’ereditarietà delle differenze di intelligenza e di carattere, le teorie eugenetiche sono state, come è noto, uno dei tratti pseudoscientifici più inquietanti che hanno connotato le politiche razziali della Germania nazionalsocialista. Per tale ragione, nel discorso pubblico esse vengono talvolta impropriamente associate in modo univoco alla cultura politica della destra estrema. In realtà, le indagini storiografiche hanno favorito una visione più complessa e sfaccettata delle origini dell’eugenetica e delle politiche sociali che essa ispirò. L’entusiasmo intellettuale suscitato dalle teorie eugenetiche, infatti, emerse innanzitutto negli Stati Uniti di inizio Novecento, nell’alveo culturale del progressismo americano.

Fu quello il contesto in cui operò Charles Davenport (1866-1944), il più noto eugenista statunitense, fondatore nel 1910 dell’Eugenics Record Office, che rimase attivo fino al 1939. Davenport era convinto che, al pari di tratti familiari quali il colore degli occhi e dei capelli e al pari dell’albinismo o dell’epilessia, anche il pauperismo e la criminalità fossero, in una certa misura, caratteri ereditari. Il pauperismo, in particolare, era considerato una cronicizzazione della povertà che non poteva dipendere solo da cause ambientali, bensì anche da una strutturale incapacità di gestire le proprie risorse, la quale, a sua volta, era un’evidente segno di inadeguatezza mentale.

Da queste tesi discendevano, nello scenario progressista statunitense, progetti di riforma sociale attraverso l’eugenetica: lo Stato infatti, secondo i sostenitori delle teorie eugenetiche, avrebbe dovuto applicarla ad esempio attraverso misure come la sterilizzazione o la segregazione per prevenire matrimoni “disgenici”, onde evitare la “degenerazione” della società. Per molti scienziati sociali progressisti americani dell’epoca – sociologi, economisti, giuristi – l’eugenetica, dunque, rappresentava uno strumento tecnico-scientifico a disposizione del potere pubblico per “razionalizzare” lo sviluppo demografico.

Progressismo transatlantico

Anche in Gran Bretagna, a ben vedere, il sostegno all’eugenetica si associò al riformismo. Fu questo il caso della Fabian Society, movimento intellettuale di ispirazione socialdemocratica che esercitò, peraltro, un notevole ascendente sul progressismo americano. Significativamente, H.G. Wells, uno dei più importanti esponenti del “fabianesimo”, associava l’eugenetica all’opposizione al liberalismo e al laissez-faire individualistico sul piano della teoria economico-sociale; e Sidney Webb spiegava ai suoi lettori che l’eugenetica non aveva l’obiettivo di produrre “bambini belli” ma “buoni cittadini”. In altre parole, per i fabiani britannici, così come per i progressisti americani, l’eugenetica rappresentava un’applicazione del social engineering necessaria per riformare la società e pianificarne uno sviluppo razionale.

Sul versante statunitense, il sociologo Lester Frank Ward, il quale, in generale, auspicava che grazie alle competenze sociologiche si potesse giungere a un “controllo scientifico delle forze sociali”, considerò opportuno, da questo punto di vista, intervenire pure per evitare che “difetti ereditari” e “deficienze mentali” si potessero liberamente trasmettere da una generazione all’altra. Nuovamente, dunque, a una visione filosofico-politica improntata al laissez-faire, quella incentrata sulla mera “selezione naturale”, l’eugenetica prometteva di sostituire il progetto di una “selezione artificiale”, attuata sulla base di conoscenze scientifiche e in un’ottica di progresso sociale. In tale prospettiva, un ruolo cruciale veniva riconosciuto, evidentemente, allo stato: lo stato, secondo il sociologo progressista Edward Ross, doveva diventare un’entità indipendente di direzione sociale, contro la “sregolatezza” degli interessi privati.

La società statunitense dell’epoca era attraversata da grandi dibattiti sull’immigrazione: i nuovi migranti di fine Ottocento e primo Novecento non erano più, infatti, quelli provenienti dalle isole britanniche, dalla Germania o comunque dalle aree più sviluppate d’Europa, bensì erano quelli poveri e privi di istruzione provenienti da paesi più “arretrati”, come l’Italia, la Polonia, la Russia.

In questo quadro, i progressisti invocavano forme di controllo sociale da parte dello stato, temendo gli effetti di degenerazione derivanti dalla crescente presenza di cittadini considerati “inadatti” (unfit). Anche i dibattiti tra gli economisti furono connotati da questo tipo di preoccupazioni, espresse, sul piano del mondo del lavoro, con termini come “razze da basso salario” (low wage races) e “residuo industriale” (industrial residuum).

E nuovamente le soluzioni “eugeniche” includevano misure come l’isolamento e la sterilizzazione di quanti erano ritenuti unfit di fronte alle esigenze dello sviluppo economico del paese. Tornando alla Gran Bretagna, ancora nel ’45 l’economista John Maynard Keynes, per i riformisti e i progressisti un’icona della scienza economica a livello transatlantico, compariva nel board of directors della British Eugenic Society.

La popolarizzazione dell’eugenetica

Negli Stati Uniti l’eugenetica ebbe larghissima diffusione e ispirò le legislazioni sociali di molti stati. Nel New Jersey, ad esempio, un convinto assertore della necessità di misure eugenetiche fu il governatore e futuro presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson, il quale promosse la creazione di una Commissione esaminatrice per i “deboli di mente” (feeble-minded fu un altro termine, accanto ad unfit, molto adoperato in quel contesto). Nel 1911 Wilson firmò una legge in base alla quale lo stato del New Jersey avrebbe potuto determinare quando la procreazione fosse auspicabile o meno.

Nel 1921 nacque un’organizzazione ufficiale americana di eugenetica, che quattro anni dopo assunse il nome di American Eugenics Society. Obiettivo dei lavori promossi dal suo comitato scientifico era lo studio dell’intelligenza, nell’ottica della preservazione della “salute razziale”. In particolare, il problema di fondo era nuovamente rappresentato dall’ereditarietà della “debolezza mentale”. La Society, attraverso stampa periodica, conferenze, mostre, libri, volle contribuire alla popolarizzazione dell’eugenetica. Tra gli argomenti propagandistici adoperati vi era quello secondo cui ogni 15 secondi 100 dollari degli americani servivano per prendersi cura di persone dotate di “cattiva eredità”, mentre una persona con un patrimonio ereditario di qualità elevata nasceva solo ogni 7 minuti e mezzo.

Una delle sezioni dell’American Eugenics Society era dedicata alla prevenzione del crimine. Se ne occupava, in particolare, il giudice Harry Olson, specializzato nello studio del profilo psicologico del criminale, sulla base delle teorie antropologiche di Cesare Lombroso (1835-1909). Il medico italiano, a fine Ottocento, aveva cercato di mettere a fuoco le anomalie e gli atavismi (la ricomparsa di tratti somatici o psichici presenti in antenati e scomparsi per alcune generazioni) che, a suo avviso, determinavano i comportamenti sociali devianti, considerati, pertanto, effetti di patologie ereditarie. Tra le soluzioni proposte dal giudice Olson per combattere la loro diffusione vi era la segregazione in colonie rurali, in modo che gli individui affetti da tali “patologie” non potessero diffondere i loro tratti ereditari nelle generazioni sociali future.

Nelle scuole di tutto il paese, intanto, venivano introdotti corsi di eugenetica. Anche qui fu attiva la American Eugenics Society. Nell’educazione, peraltro, i messaggi ispirati all’eugenetica erano continui: dai sermoni religiosi, che raccomandavano i matrimoni dei migliori con i migliori, ai libri di testo di biologia, nei quali non mancava un capitolo dedicato alle teorie eugenetiche. Nelle classi furono introdotti, inoltre, i test di intelligenza: molti specialisti di esami psicometrici, infatti, sostenevano che le misurazioni del “quoziente di intelligenza” rivelassero un substrato genetico ereditario e dessero, pertanto, preziose indicazioni anche per la selezione di futuri genitori. Questo tipo di esami fu somministrato nelle scuole pubbliche, nell’esercito e nei punti di raccolta degli immigrati come Ellis Island. Alle spalle vi erano sempre, dunque, i timori per un possibile race suicide, in assenza di regolamentazioni demografiche, pericolo segnalato da Edward Ross già in un volume del 1907, Sin and Society, con la prefazione del presidente statunitense Theodore Roosevelt, anch’egli preoccupato per la conservazione della “razza americana”.

Nel 1933 provvedimenti ispirati all’eugenetica come la sterilizzazione di individui a cui fosse stata diagnosticata una “demenza ereditaria” erano oramai stati introdotti in una trentina di stati; più di 16.000 persone erano state sterilizzate. Iniziative del genere, a ben vedere, proseguirono ben oltre la Seconda guerra mondiale, giungendo fino agli anni settanta. Le idee e le pratiche eugenetiche statunitensi, fin dagli anni venti e trenta, suscitarono grande attenzione in varie parti del mondo. Furono riprese in Canada, in America latina, in Scandinavia. Da un lato, furono osservate con interesse, ovviamente, da parte della Germania nazista, dall’altro rientrarono anche nell’orizzonte ideale del welfare state scandinavo: in Svezia, tra il 1935 e il 1975, sarebbero state sterilizzate più di 60.000 persone, sulla base di una legislazione considerata “socialdemocratica”.

Eugenetica e biopolitica

L’eugenetica e le aspirazioni a forme di razionalizzazione sociale dei primi decenni del Novecento rientrarono nei più generali progetti “scientistici” e “tecnocratici” che connotarono il progressismo dell’epoca. Propulsore iniziale fu, dunque, il riformismo progressista ispirato agli ideali di pianificazione e controllo sociale da parte di un’expertise statale, nell’epoca del tramonto dell’ideologia liberale ottocentesca basata sul laissez-faire.

La civiltà moderna sembrava avere oramai rimosso, in ampia misura, gli ostacoli naturali alla crescita della popolazione: per la modernizzazione e la razionalizzazione sociale, a questo punto, molti riformisti ritennero necessario il ricorso a “tecniche” per la salute sociale.

Al di là della connessione con i progetti razziali della Germania nazista, dunque, la parabola dell’eugenetica mostra la sperimentazione di principi e dispositivi non dissimili da quelli che il filosofo francese Michel Foucault (1926-1984) ha messo a fuoco attraverso la nozione di “biopolitica”, a partire dalla necessità di “difendere la società” e dal “primato della popolazione sul singolo individuo”.

È questo un aspetto cruciale, per Foucault, delle declinazioni del potere dello stato nell’epoca della tarda modernità: esso non si limita al disciplinamento ma si preoccupa dell’ottimizzazione e della massimalizzazione della sfera biologica. Lo stato diventa, in ultima analisi, gestore della popolazione. In tale prospettiva, Foucault osserva come, a ben vedere, non vi sia “alcun modo di funzionamento moderno dello stato che, a un certo punto, a un certo limite e in certe condizioni non sia passato attraverso il razzismo”. Se per un verso il nazismo, in quest’ottica, ha fatto propria la logica estrema della biopolitica, per altro verso essa era, però, già inscritta in esperienze come quella dell’eugenetica progressista.


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